ARIONE DE FALCO un teatro di relazione
Decido di intervistare Dario e Annalisa, in arte la Compagnia Arione De Falco, che sono poi i loro cognomi, dopo averli ospitati presso il Teatro Sociale di Palazzolo sull’Oglio per tre giorni ed essere stata colpita dalla loro gentilezza, dalla loro ironia, dal loro linguaggio artistico e dalla scelta di utilizzare il teatro per veicolare messaggi importanti, non solo per le nuove generazioni, ma per tutte e tutti.
Ecco cosa mi hanno raccontato in questa chiacchiera libera.
1. Chi è la Compagnia Arione De Falco, da dove nasce e qual è la vostra poetica?
D: Ciao a tutti, io sono Dario
A: Io sono Annalisa
D: E insieme siamo la Compagnia Arione De Falco. Abbiamo cominciato a lavorare insieme dodici anni fa; noi stavamo già insieme come coppia; una mattina che dovevo andare a fare tournee con la compagnia con la quale lavoravo, Cà Luogo d’Arte, e Annalisa stava tornando dalla notte perché aveva lavorato in televisione con Colorado Cafè, mi sono svegliato e le ho detto “ma perché non lavoriamo insieme? Ci vediamo talmente poco!”. A volte ci vedevamo solo per il buongiorno o la buonanotte e da lì ci siamo detti, “io so fare delle cose, tu sai fare delle cose, perché non proviamo a farle insieme?”.
Abbiamo ripreso uno spettacolo che si chiama Pelle d’Oca che era già stato scritto da Dario, lo abbiamo rimesso in prova in quattro giorni, Annalisa è stata velocissima, lo abbiamo presentato a Maggio all’Infanzia e da lì è partito tutto: abbiamo iniziato a lavorare su spettacoli che fossero nostri.
A: Il primo spettacolo è stato Mai Grande. Un papà sopra le righe, poi Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino e poi Storia di un no.
Noi parliamo principalmente di relazioni e di come aprendosi all’altro o all’altra si riscoprano o si possano scoprire delle complessità. Per cui la nostra poetica è raccontare qualcosa che ci è caro e urgente come tematica, ma sempre con l’obiettivo di parlare di relazioni e scoprire cosa le animi.
D: Il linguaggio che usiamo è quello evocativo: assenza di scenografia e assenza di oggetti. Ma ho lavorato tanto nelle mie esperienze passate con oggetti e scenografie. Prima lavoravo con una compagnia che faceva teatro partendo proprio dalle scenografie.
A: Io invece ho sempre lavorato in assenza di oggetti perché faccio improvvisazione teatrale e non abbiamo mai nulla in scena. Tutto quello che c’è ce lo inventiamo, come il testo che non esiste, anche gli oggetti non esistono. Prima di Arione De Falco lavoravo nella comicità, monologhi comici, per cui anche lì assenza di scenografie.
La nostra poetica è dunque basata sul binomio: indagare le relazioni e raccontare storie che abbiano qualcosa che riteniamo importante e urgente da dire.
Per esempio lo spettacolo Per te una favola bianca che fa parte del nostro repertorio, per ora abbiamo deciso di metterlo da parte, con l’intenzione di riprenderlo, perché non ci sembrava più affine alla nostra poetica, ci siamo resi conto che le parole che usavamo non ci rispecchiavano più, c’erano un po’ di stereotipi.
Ora stiamo cercando di utilizzare parole, immagini e storie che sposiamo in toto.
- Voi lavorate principalmente per le nuove generazioni, affrontando tematiche di grande valore sociale ma riuscendo a renderle sempre poetiche. Cosa significa per voi oggi fare teatro per bambini e ragazzi? Gli strumenti che hanno a disposizione i ragazzi e le ragazze di oggi, anche per informarsi su certi argomenti che li toccano da vicino, tolgono senso al linguaggio del teatro oppure no?
D: Il teatro è quel luogo in cui il pubblico partecipa e si riconosce; quindi, fare teatro per le nuove generazioni è costruire insieme uno spazio, un luogo di contenuti dove si lavora su una coscienza e una presa di coscienza. Sia come pubblico che come artisti, lavorare su delle tematiche ci mette nelle condizioni di dover approfondire e comprendere aspetti del vissuto, del reale e di tutto ciò che ci circonda che magari prima di iniziare le prove di quello spettacolo non guardavamo con cosi tanta attenzione. Ad esempio, Storia di un no (n.d.r. lo spettacolo affronta il tema delle relazioni abusanti e del consenso) è stato un ampio campo di dibattito tra me e Annalisa, di contenuti dei quali io non sempre ne capivo la profondità e l’importanza. Per questo spettacolo abbiamo lavorato anche con i ragazzi e le ragazze dei laboratori che teniamo proprio sul tema della parità di genere, lavorare su questi temi insieme ai ragazzi e alle ragazze è stato molto produttivo in senso umano, molto fertile.
Fare teatro per noi è anche fare laboratori, lavorare attraverso la formazione, attraverso delle esperienze ludiche, partecipative, fare in modo che i ragazzi e le ragazze partecipino in comunità, in senso comunitario a questo luogo immaginario che è il teatro.
A: per me è anche fare politica, così come il corpo è politico. Portare il corpo in scena, dicendo delle cose, trasmettendo idee, a volte anche complesse, è fare politica.
D: sì, sì, condivido.
Per quanto riguarda gli strumenti che hanno a disposizione i ragazzi e le ragazze, li hanno e li sanno padroneggiare meglio di noi; la cosa difficile dal nostro punto di vista è metterli a servizio del teatro. Per esempio, quando scriviamo i copioni durante i laboratori, in certi momenti li faccio stare sul palco con il cellulare in mano e google drive a scrivere in tempo reale i loro testi. WhatsApp è uno strumento di condivisione. Su Instagram abbiamo trovato molti contenuti, anche riguardo a Storia di un no, c’è molto attivismo. Sicuramente c’è molto caos, ma sono anche i social spazi di senso.
A: E sono anche spazi che hanno concesso voce a chi prima non aveva un microfono attraverso cui parlare, a cui non era permesso di arrivare alla televisione, ai grandi palchi e ai grandi pubblici. Ora invece aprendo un canale su Twitch, TikTok, YouTube, Instagram, chi è considerato e visto come marginalizzato può prendere un microfono e parlare ad un pubblico, e chi si trova nella stessa situazione si riconosce. Per tutti loro c’è una narrazione a cui finalmente si sentono di appartenere. Quindi è vero che è un caos e bisognerebbe fare dei corsi per imparare ad usare gli strumenti, anche per noi adulti, però se si sa cercare bene, c’è uno spazio di senso, come diceva Dario, di rappresentazione di nuove storie, di altre storie, importante, anche per un pluralismo.
D: poi c’è un problema di fondo enorme: si tratta di spazi privati, di proprietà di qualcuno che chiaramente ci guadagna. È un paradosso enorme che in qualche modo ghettizza. Però non si può non prenderne atto e non si può fermare un processo che è già così avanzato. Bisogna in qualche modo integrare delle possibilità che prima non conoscevamo.
Detto questo, meglio che ci fermiamo qui visto che non conosciamo così bene l’argomento e rischiamo di fare commenti da boomerissimi. (ridono)
- La vostra cifra linguistica è un teatro senza oggetti di scena, ma grazie ad un attento studio dei movimenti, il pubblico percepisce ogni singolo dettaglio della scena narrata. Come lavorate per rendere questo possibile?
D: Sulla scelta del linguaggio e del lavoro in assenza di oggetti e di scenografie, noi lavoriamo cosi: partiamo da delle improvvisazioni, difficilmente scriviamo un testo partendo da zero, di solito sono trascrizioni di improvvisazioni, quando abbiamo un giro di una storia che ci piace e funziona, attraverso cambi di spazi, di personaggi, di oggetti, coinvolgiamo Annalisa Cima, una bravissima attrice che vive in provincia di Pisa e che ha studiato alla scuola di Lecoq; a questo punto lei tenta disperatamente di rimettere a posto i movimenti. Quando lo fa lei sembra tutto facile, quando lo facciamo noi molto meno (ridono), il forno della casa di Martina (n.d.r. in Storia di un no) ogni tanto si sposta in salotto quando lo facciamo noi. Però insomma…
A: A noi piacerebbe tantissimo lavorare con gli oggetti, ma abbiamo fatto questa scelta anche per un problema di spazio: a Milano non abbiamo una sala prove, per cui i nostri spettacoli nascono nel salotto di casa; ci concentriamo maggiormente su quello che abbiamo a disposizione, cioè poco spazio, più parole e temi che ci stanno a cuore.
D: Ruolo fondamentale per noi lo assume la musica, anche gli ambienti sonori e gli spazi sonori che creiamo negli spettacoli ono molto ricercati. A lavorare con noi all’ideazione e realizzazione delle musiche c’è Enrico Messina, omonimo dell’attore e regista pugliese, ma questo è piemontese.
A: Enrico è un maestro di musica che lavora soprattutto nell’ambito dell’improvvisazione teatrale ed è molto abile. Quando iniziamo a preparare uno spettacolo nuovo, ci segue da subito e riesce a cogliere con immediatezza le indicazioni assurde che, soprattutto Dario, gli da. Del tipo “fai questa scena come se fossimo euforici, sott’acqua e improvvisamente succede qualcosa di brutto” e lui, può sembrare pazzesco, ma lo fa, e lo fa bene.
D: sul fatto di fare teatro di narrazione, come ci hai chiesto, non so se noi facciamo teatro di narrazione, è un mix, nel senso che negli spettacoli stiamo in situazione, costruiamo dei contesti, lavoriamo come se avessimo degli oggetti, degli spazi a disposizione.
In Storia di un no ci sono effettivamente dei narratori, ma per un discorso di dentro/fuori, di narrare le emozioni dei personaggi. In questo spettacolo c’è stata la scelta oscena di mostrare qualcosa che normalmente non va mostrato e di fare degli “a parte” che raccontassero quello che stava accadendo all’interno dei personaggi, perché è uno spettacolo che parla di emozioni e dell’importanza di parlarne ed esprimerle. Però ad esempio Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino è impostato come una storia vissuta in prima persona, evocata attraverso un ricordo, ma non è raccontata o riportata.
A: mentre nell’ultimo spettacolo Le rocambolesche avventure dell’orso Nicola, del ragnetto Eugenio e del moscerino che voleva vedere il mondo e che rese tutti felici di nuovo c’è un dentro/fuori, e anche lì abbiamo deciso di non usare oggetti.
D: Il fatto di non usare oggetti ci permette di andare in scena in qualunque contesto, anche non teatrale. Abbiamo fatto per esempio Storia di un no in una replica per 60 ragazzi e adesso andiamo al Teatro Ivo Chiesa di Genova in cui ci sono 999 posti, dove la scenografia in un caso sarebbe stata magari troppo grande e nell’altro sarebbe risultata troppo piccola. In ogni caso comunque il problema non si pone visto che a Milano non possiamo permetterci uno spazio dove stoccare le scenografie, né un furgone, né un parcheggio del furgone. Quindi ciò che è nato come una scelta di comodo alla fine si è rivelata una risorsa enorme… per un teatro di poveracci (ridono); dal teatro povero al teatro dei poveracci.
- Progetti futuri?
D: innanzi tutto continuare così perché ci stiamo divertendo molto. Quello che ci piacerebbe fare è aprire a nuove collaborazioni. A noi piace molto questa modalità di scrittura e di ideazione di storie. Cioè ci sembra di fare qualcosa che poi resta attraverso l’immaginazione. È figo come lavoro. Quello che potrebbe essere bello è coinvolgere una compagnia più giovane, magari con delle abilità che noi non conosciamo o non abbiamo e collaborare o strutturare per loro un percorso o una regia o un testo insieme, insomma aprirci a nuove collaborazioni.
Dopo averli visti in scena consigliamo a tutti di vederli dal vivo, per la loro poesia e profondità.
A cura di Francesca Fabbrini, Filodirame.