Attrice e comica in TV e in teatro, regista e formatrice, Rita Pelusio è una delle artiste più poliedriche del panorama teatrale italiano. Formatasi come clown e mimo, prendendo parte alle produzioni televisive Markette e Colorado Café e La Tv delle Ragazze. Ha lavorato nel corso degli anni tra gli altri con Natalino Balasso, Lella Costa e Serena Dandini prima di fondare con Anna Marcato, Domenico Ferrari e Monica Giacchetto il centro di produzione d’Arte Comica PEM Habitat teatrali. Abbiamo incontrato Rita in una pausa del “Simposio”, come viene chiamata l’assemblea del collettivo, indetto per decidere le nuove produzioni su cui lavorare nell’anno corrente.
- Ciao Rita, è davvero un piacere poter scambiare quattro chiacchiere con un’artista capace, divertente, impegnata, sottile ma non elitaria come te. La prima curiosità è quella di chiederti come ti sei avvicinata al teatro. C’è stata una scintilla, un momento in cui ti sei detta “voglio fare l’attrice o è stato un processo graduale?
- Mi sono avvicinata al teatro alle scuole superiori, grazie al mio professore di italiano che ci portava a teatro. Un giorno una mia vicina di casa mi ha portato a vedere Lella Costa: è stata una folgorazione. Mi sono detta, voglio fare quello! Così mi sono imbarcata nella mia “avventura formativa” : prima gli studi classici accademici e poi dopo l’opposizione della mia famiglia, la fuga e l’approdo in una meravigliosa Comune dove ho conosciuto insegnanti europei che mi hanno dato un nuovo sguardo e fatto innamorare dell’arte comica.
- Hai avuto la possibilità di lavorare in svariati ambiti e con molti artisti diversi tra loro, come ripercorri la tua carriera?
- Vedo la mia vita come una catena in cui ogni anello è un’esperienza che si intreccia ad un altro e ogni nuovo anello rappresenta un salto evolutivo. Mi ritengo molto fortunata per gli incontri che ho avuto, a livello professionale ma anche per la generosità umana di questi artisti che mi hanno aiutata ad aprire la mente, Natalino Balasso, Philip Radice, Jean Mening, Marcello Magni, Jous Houben, Serena Dandini e Lella Costa, per citarne alcuni. Lavorare con Lella, ai tempi di “Ferite a morte” è stata la chiusura di quel cerchio che si era aperto quando la vidi da piccola. E poi l’incontro con Anna Marcato e Domenico Ferrari e la creazione di PEM, l’incubatore di sogni, come siamo soliti chiamarlo, fino ad arrivare al lavoro con Enrico Messina per la realizzazione de “La felicità di Emma”.
- Come nasce l’idea di un nuovo spettacolo?
- Dall’urgenza, dalla fame di raccontare qualcosa. Abbiamo creato PEM per autoprodurre gli spettacoli. Ci siamo detti “è inutile andare a chiedere ad altri”, andare a fare gli scritturati su progetti che non ci interessano, appiattirci su quello che impone il mercato. Guardiamoci in faccia, chiediamoci quello che vogliamo fare e facciamolo. Il Simposio funziona così, ogni componente del collettivo esprime i propri bisogni, le proprie aspettative e assieme si decide che spettacolo allestire. Intendiamoci, scendiamo anche noi a compromessi, non siamo esenti da determinate dinamiche, ma lo facciamo in modo consapevole e andiamo a creare quello di cui sentiamo la necessità di parlare.
- Generalizzando, ritieni che il teatro, l’arte e nella fattispecie l’artista abbia ancora un ruolo di guida, svelamento, indagine sui temi da proporre all’opinione pubblica o forse c’è il rischio che sia all’inseguimento dell’attualità o di temi calati dall’alto?
- Io credo che innanzitutto per un artista ci dev’essere un’urgenza. Credo che cercare il proprio linguaggio sia fondamentale cercando poi di renderlo universale. L’arte deve portare una visione. Se l’artista non svela qualcosa, non incide sulla società in cui vive, allora esso è solo un operaio privo di consapevolezza all’interno di un sistema. Spesso non si riesce, è vero, ma è importante provarci. Diciamo che mi considero un’artigiana, perché quello che faccio è certamente un lavoro che mi da da vivere, ma per un fine più alto, che magari vale solo per pochi ma mi fa trovare il senso e il rispetto della fatica. Penso al teatro come un atto di solidarietà.
- Cosa ne pensi della drammaturgia contemporanea? Pensi ci sia ancora spazio per una drammaturgia che dica qualcosa di nuovo alla società?
- Certamente, c’è spazio per tutte e tutti, anzi dovrebbe esserci molto più spazio per le Drammaturghe, le Registe, Le direttrici artistiche. Credo debba esserci più spazio per le giovani generazioni, ma uno spazio che possa dar loro non solo il respiro creativo ma anche la possibilità che diventi un lavoro. La società è in mutamento continuo e non sempre in una direzione giusta, quindi lo spazio per dire qualcosa di nuovo c’è, e sarebbe bello che ci fosse anche lo spazio per ascoltare qualcosa di nuovo
- Ti va di farci qualche nome, qualche spettacolo che ti ha entusiasmato ultimamente?
- Mah, cosa posso dire, mi piace il Teatro dei Gordi, il circo teatro in generale , Finzi Pasca, Los Galindos, ho amato Supplici di Atir, un capolavoro assoluto! Ma se me lo richiedi tra due giorni di sicuro te ne direi anche altri.
- Oltre che attrice, fai anche delle bellissime regie ad altri artisti. Ci riferiamo ad esempio allo spettacolo HoStress, ma in particolare al meraviglioso Papagheno Papaghena. Vorresti dirci due parole sul tuo approccio alla regia? Hai un metodo o ti lasci guidare dal momento?
- È stato un privilegio poter lavorare a questo spettacolo, perché lo volevo fare, avevo il sogno di fare il flauto magico per tre clown. Stavamo lavorando per un altro spettacolo e dopo cinque giorni di prove eravamo bloccati. Anna (Marcato ndr) mi guarda e mi fa: ma lo vuoi fare veramente? – Le ho risposto: No. – E lei: E cosa vuoi fare? – E io: Il flauto magico. E da lì siamo partite. Ed è sempre un qualcosa che parte da dentro, dal desiderio, dall’anima. Poi c’è il lavoro di tecnica, di affinamento, di allestimento, il lavoro d’attore, la tecnica, ma prima c’è la scintilla.
- Veniamo al Teatro Ragazzi: hai lavorato a qualche spettacolo per ragazzi?
- Sì, ho fatto con Domenico (Ferrari ndr) “Tragicomic Heroes” su Shakespeare, “Canto Ergo Sum” con la fondazione TRG, ma un lavoro a cui sono particolarmente affezionata è “Armando” con Enrico Vezzelli, ho scritto il testo con Domenico Ferrari ed Enrico (Messina ndr) ha curato la regia, poi è diventato anche un libro.
- Pensi che in questo mondo in cui tutti noi, ma i bambini in particolare sono continuamente bersagliati da stimoli, TV, videogiochi, smartphone, il teatro possa ancora avere per loro una qualche funzione? Quale? Perché?
- Io credo che sarebbe bello rompere la distinzione tra teatro per adulti e quello per ragazzi. Ho sempre portato mio figlio a vedere gli spettacoli che interessavano a me. A me personalmente infastidiscono gli spettacoli con un linguaggio troppo elementare costruito in modo stucchevole per i bambini. È chiaro che c’è una differenza, che si debba tener conto dei diversi piani e livelli cognitivi ma non mi piace quello che è troppo edulcorato. Credo nel teatro non tanto come funzione educativa, piuttosto come una funzione “detonante”. Può accendere desideri, dubbi, può accelerare processi nelle ragazze e ragazzi, può accoglierli e farli sentire meno soli.
- Infine la formazione: sembra un’attività che ti interessa particolarmente, hai appena concluso lo stage “Umanità comica” e a breve parte in collaborazione con l’Università Cattolica il corso per educatori “Umanità fragile. Il valore dell’arte comica all’interno dei processi educativi”. Cosa ci racconti?
- E’ un laboratorio ideato insieme a Francesca Gentile. Educare significa etimologicamente “trarre fuori” “tirar fuori ciò che sta dentro”. Diventiamo così facilitatori dell’emotivo dell’altra persona. La figura del clown permette di far emergere ciò che nella quotidianità spesso non viene espressa. Sapersi porre in una condizione di apertura e di ingenuità permette a noi di saper ascoltare e cogliere ciò che necessita l’altro. Quando ci viene affidato un compito educativo, che sia in una classe, in un gruppo, in una comunità fragile ci viene affidato un ruolo. Diventiamo così responsabili di un processo che dovrebbe accompagnare l’altro nel suo cambiamento, nella sua crescita. Il divario che c’è tra il ruolo del quale siamo investiti e la nostra reale possibilità di svolgerlo crea la “premessa comica” che diventa l’habitat all’interno del quale il nostro educatoreclown può crescere.
Lasciamo ritornare Rita al Simposio con i suoi colleghi, ce la immaginiamo discutere, accalorarsi, proporre l’argomento del prossimo spettacolo, la vediamo coinvolgere, emozionare ed emozionarsi per la prossima battaglia che vorrà portare sul palco, perché il teatro che vive Rita è scintilla, sentimento, militanza, visione e tutto questo in forma alta e comica, leggiadra e cantata, drammatica e divertente. In una parola è passione!
a cura di Renata Rebeschini e Michele Fratucello