SETTE DOMANDE A FRANCESCO NICCOLINI

SETTE DOMANDE A  FRANCESCO NICCOLINI

Di Eugenio Incarnati

 Autore, regista, drammaturgo (ama definirsi “scrivano”), Francesco Niccolini è “motore” di moltissimi progetti artistici dei tipi più svariati.

Si cita spesso il suo lavoro al fianco di Marco Paolini (“Il milione”, “Parlamento chimico”, la versione tv di “Vajont”, il “Teatro Civico” di Report e “La fabbrica del mondo” per rai 3, e poi “Itis Galileo”, “Il calzolaio di Ulisse”  e molto altro); l’elenco delle sue opere e delle sue collaborazioni è, però, lungo e denso di nomi importanti. E nello scorrere la lista delle sue gesta, fra letteratura, drammaturgia,  radio, televisione, fino alle ultime operazioni fra teatro e graphic novel,  ti salta agli occhi, chiaro e puro, che Francesco Niccolini è, soprattutto, un artista appassionato.

In questo fine gennaio 2024, per esempio, sta già lavorando, tra l’altro, ad uno dei frutti della sua passione, una delle creature che, forse non è fra le sue più grandi, ma, di certo, è preziosa:  la dodicesima edizione di “Montagne”, il “festival del racconto” che ha luogo in giugno e luglio a Larzana (TN) ed  ha, al suo interno, venti magnifiche giornate sulla narrazione e sui linguaggi del teatro: sono giornate di ricerca, ma anche di “produzione”, in cui Francesco (con l’ausilio di un “genio della lampada” come l’attore-autore -regista Claudio Milani), studia, insieme ai suoi allievi, i loro stessi progetti drammaturgici e, in sedute collettive, taumaturgo in punta di piedi, filologo e speleologo al tempo stesso, conduce, tali progetti, a nuova consapevolezza, pronti per diventare opera compiuta. E infatti, da “Montagne” vengono fuori materiali che  ritrovi sulla scena, belli, fieri e forti, in giro per l’Italia (ed oltre).

Nelle risposte, alle sette domande che gli abbiamo posto, la passione scaturisce ed è protagonista; e si capisce anche che, una parte della spinta creativa, è sorretta e consolidata da un onnipresente senso di responsabilità del ruolo dell’intellettuale.

 

Cosa vuol dire “impegno” nel teatro, nella scrittura , nella drammaturgia?

 Francesco: Vuol dire che ci deve essere pensiero, senso etico in quello che facciamo e, ciò, non solo nella drammaturgia, nel teatro ma, veramente,  in ogni atto della vita. Essendo il teatro, per eccellenza,  un  “atto di comunità” è indispensabile impegno  e  senso di responsabilità, comune e reciproca. Ogni volta che scrivo o dirigo, mi devo porre domande molto serie su quello che sto facendo, sul come lo sto facendo , sul rispetto verso gli attori, verso gli allievi, fino ai produttori…  Devo riempire quello che faccio di “ardore”, che è ciò che muove sia gli uomini ….che il sole e le altre stelle.

Sei una persona molto impegnata anche in progetti formativi. Cosa vedi all’orizzonte? Si riescono a scorgere, dal tuo osservatorio privilegiato, piccole o grandi tensioni creative, piccoli o grandi fermenti di nuovo tipo?

Francesco: C’è una cosa, fondamentale, che continuo a sperimentare nelle occasioni in cui faccio formazione, che  mi riempie  sempre di meraviglia e felicità: l’infinita diversità  dei modi di affrontare le storie e l’infinita diversità fra le storie  …e questo è entusiasmante. Fermenti ce ne sono sempre, soprattutto da chi viene da realtà meno facili, meno ricche, dove c’è anche un pochino più di rabbia. Bisogna avere un mal di pancia per “fare teatro; se stai troppo bene è difficile farlo. Ci deve essere un disagio e, più questo disagio è sincero, più è vicino alle persone, più è grande l’esigenza di trasformare, la ferita, in un atto teatrale, in comunicazione, in condivisione.   Mi è capitato negli ultimi anni di lavorare con diversi gruppi di giovani (in Trentino, a Napoli…): si sperimentano difficoltà differenti, argomenti e linguaggi molto diversi. Tutto questo è meravigliosamente affascinante per me.

 

Come consideri l’esplosione (a partire dal lockdown) dei tentativi, dei teatranti, di cercare una via telematica ?

 Francesco: Vedo, soprattutto, che c’è una grande necessità di fare podcast ( me lo confermano molti amici giovani, in questo periodo). Molti, che hanno cominciato durante il lockdown, ora vanno avanti.  Abbiamo scoperto  che è una forma di comunicazione intima, intensa; può costare molto poco, quasi nulla e può avere una capacità di fascinazione alta ed inoltre, ha una immediata possibilità di ascolto. Io stesso, durante il lockdown, con i miei allievi, avevo fatto una specie di radio clandestina; si chiamava “Radio Wolf”; ogni sera alle 23.00 c’era la condivisione di miei racconti – tutto ciò, mi/ci ha segnato in modo molto positivo. Molti di quei racconti, a distanza di quattro anni, me li chiedono ancora ed io continuo a distribuirli, con orgoglio e con lo strano ricordo di ciò che c’era successo. Con i social, va detto, ci sono anche rischi e limiti: trovo sbagliato affidare troppo il teatro a youtube, alle immagini; non funziona …o almeno, è molto difficile. La modalità “radio”, credo che, invece, sia molto più affascinante.

 

Quali sono, secondo te, gli ostacoli più grandi al lavoro degli artisti, oggi?

 Francesco: L’ostacolo numero uno è sempre la politica. Tu sei Abruzzese,  tu sai come si comporta il tuo teatro nazionale, il teatro stabile; sai quanto è difficile, per le realtà interessanti ed interessantissime che ci sono in Abruzzo, aprire un canale, avere un rapporto con le istituzioni …e come sono strani e difficilmente condivisibili i principi produttivi! Questa, purtroppo, è la regola in Italia; non c’è nessuna attenzione al teatro giovane, al teatro indipendente ed alle novità; si vanno a cercare soltanto  “grandi nomi” dalla televisione,  vecchi titoli di spettacoli di successo del passato, adattamenti di romanzi famosi o, peggio ancora, di film. Tutto questo è perdente ed è un “tumore” per il teatro italiano. Rimane uno spazio ridicolo per le  nuove creazioni. Io dico, sistematicamente, che una grave colpa dei direttori dei teatri italiani è il non aver coraggio; si sono spalmati su posizioni facili, secondo cui è meglio riempire il teatro con il “grande nome”, anche se ti è costato moltissimo, anche se, poi, a grandi nomi non corrispondono grandi attori  … Purtroppo sembra diventata la regola e paghiamo un prezzo furioso, furibondo per questo errore clamoroso.

 

Che funzione si può dedicare, a tuo giudizio,  al teatro per ragazzi?

 Francesco: Il teatro ragazzi è fondamentale; a me piace moltissimo scrivere per i ragazzi, per il pubblico giovane.  Se non cominciamo presto ad abituare i giovani al teatro, molto difficile è, poi, recuperarli. Per chi ha tredici o quattordici anni, poi, è come se, il teatro, fosse vietato; non ci sono produzioni; le scuole superiori non vogliono portarli… Spesso mi dicono “ma questa produzione non può andar bene! è indirizzata ai quindicenni, ai sedicenni! Mi sembra una follia criminale; così come è criminale continuare a fare “teatro-ragazzi” solo con “Biancaneve” e “Cappuccetto Rosso”…”. E tutto ciò si ricollega al cattivo comportamento dei direttori dei Teatri, di cui parlavo prima: per loro è più facile andare su un titolo famoso e quindi “sicuro”. Bisognerebbe essere capaci di prendersi più rischi e, con essi la responsabilità (lo dicevamo all’inizio di questa intervista) del ruolo del teatro e di chi racconta: certo, ci vuole la fiaba, la poesia, l’arte, si, ma quale arte, quali storie? Dobbiamo farlo (come Disney) con versioni edulcorate? …oppure, come io credo, porci la domanda di “come ricominciare a raccontare di un reale che spesso è feroce” ? Ovvio, per i piccoli,non bisogna farlo in maniera traumatica, (cosa che, tra l’altro,  tv e social fanno regolarmente) ma attraverso simbolo, metafora, poesia, “arte” e credo che sia questa la scommessa decisiva. Pochi, però, vogliono percorrere questa strada, sempre preoccupati di non incidere troppo, accontentandosi di una superficie  rassicurante. Peccato! Così si sta scavando un solco sempre più profondo fra noi e i ragazzi  –  che, invece, hanno bisogno di essere presi per mano, non come degli incapaci, ma per essere accompagnati, con ardore,  con la poesia, chiave di lettura di una realtà tanto bella quanto crudele.

E’ una funzione diversa da ciò che è destinato al pubblico “in generale”?

C’è una responsabilità in più, una responsabilità enorme. È un pubblico che ha qualche strumento in meno per decodificare la menzogna, ma qualche strumento in più, per vivere la meraviglia. La questione è molto delicata. In verità, mi pongo questo problema anche quando lavoro per gli adulti: prima di tutto, cerco una lingua comune, per poter dialogare sinceramente e profondamente. Mi piace quando riesco a fare spettacoli di cui, sia i bambini che gli adulti, riescono a godere – spesso in modi diversi e ciò mi piace molto – ma profondi. … certo che il senso di responsabilità, con i ragazzi, dev’essere ancora più grande.

 

Ha senso , per lei promuovere la pratica artistica, letteraria, teatrale “per tutti” e non solo per chi abbia intenti professionali?

 E’ indispensabile rivolgersi anche ai non professionisti. …anche perché in Italia abbiamo grandi crisi di pubblico. Abbiamo detto che i teatri sono pieni quando ci sono i grandi nomi e i titoloni;  se no,  rimangono mezzi vuoti… Per cui, prima di tutto io devo rivolgermi alla gente normale – ciò è fondamentale. Non penso mai al pubblico dei professionisti – che hanno una serie di “filtri”, perché sono frenati  o “intossicati” da altri intenti ed interessi. Io ho necessità assoluta di dialogo con quello spettatore che va a teatro perché il proprio battito cardiaco aumenti e, anzi, vorrei proprio convincere gli spettatori ad andare a vedere, con fiducia, cose nuove. C’è tanto teatro nuovo che va scoperto e va nutrito.

 

Speriamo che la sollecitazione di Francesco Niccolini, sul finale di questa chiacchierata, sia accolta.

Le nuove produzioni, si sa, fanno fatica a trovare spazio e la logica dei “titoli” attanaglia tutti i teatranti. La responsabilità, di sicuro è di tutti: ognuno deve fare -scusate la banalità- la propria parte. Ma mentre gli artisti, di sicuro, non lesinano gli sforzi, cosa accade da parte di chi svolge una funzione pubblica “politica”, anche in senso culturale? Ne potremmo parlare con qualcuno, in qualche intervista, magari. Che dite?

(Eugenio Incarnati)