ENRICO MASSEROLI, IL TEATRO E’ LA MIA VITA

Enrico Masseroli è attore, danzatore e regista. Inizia l’attività professionale nel “TTB” Teatro Tascabile di Bergamo diretto da Renzo Vescovi. Nel 1978 si reca a Bali su suggerimento di Jerzy Grotowski – col Maestro polacco collabora nei progetti “Theatre of sources” e “Improvvisazione strutturale”- dove studia il teatro/danza di Bali sotto la guida del Maestro I Made Djimat. Fonda nel 1987 in Austria, l’ensemble “The Pirate Ship”, dedito al teatro negli spazi urbani e nel 2010 a Bergamo, “Gamelan Gong Cenik” piccola orchestra con strumenti originali balinesi, che tuttora dirige. Ha prodotto, diretto e partecipato a numerosi spettacoli teatrali, conferenze, laboratori e workshop in centri teatrali ed università in Italia, Austria, Germania, Israele, Perù, Brasile, Canada, Spagna, Polonia, Svizzera, Svezia, Singapore, Serbia, Corsica e Malta.

È mattina presto e il freddo qui è pungente. Incontriamo Enrico Masseroli fuori dalla Casa delle Associazioni di Ranica (Bg) – Che nome meraviglioso! All’interno di questo edificio abitano le tante associazioni del territorio tra cui Isabelle il Capriolo dove a breve Enrico Masseroli e il suo gruppo Gamelan Gong Cenik cominceranno le prove del nuovo spettacolo di Topeng. Approfittiamo di questo momento per la nostra intervista.

Enrico, innanzitutto, che cos’è per te il teatro? Da reminiscenze universitarie, la cultura balinese, con la quale tu hai un rapporto molto forte, ha un legame profondo con il rituale. Questo teatro si avvicina al rituale o sono due cose totalmente diverse?

Per prima cosa bisognerebbe definire che cosa uno intende per rituale.

Per rispondere alla prima domanda, il teatro è la mia vita. Grazie al teatro ho potuto lavorare. È stato l’unica attività che ho svolto come professionista dall’età di 21 anni fino alla pensione attuale. In questo lungo periodo mi sono dedicato in modo approfondito e tuttora attivo al teatro balinese.

Il teatro balinese è un teatro che nel suo insieme si può definire rituale in quanto la religione di Bali, Agama Hindu Dharma, prevede nei suoi rituali svariate forme di spettacoli teatrali, composti anche di musica e di danza.

Noi, qui, riproponiamo queste forme originali usando, quando è richiesta la parola, la lingua del paese dove stiamo. Come avviene a Bali le forme non sono delle entità fisse che uno può vedere in un museo, ma forme vive formanti che ogni volta vengono ricreate.

Insisto su questo aspetto del rituale, perché ricordo che tu hai avuto la possibilità di partecipare a dei rituali anche con Djmat a Bali.

Si

Ci sono delle differenze tra rituale e teatro?

Il mio maestro Grotowski diceva che dal rituale degenerato è apparso il teatro, da un punto di vista cronologico. Esiste il teatro che si fa all’interno dei riti religiosi e il teatro profano, letteralmente fuori dal tempio. E questo succede anche a Bali. Tanti spettacoli si svolgono all’interno del tempio: a seconda della ricorrenza o della celebrazione occorre fare uno spettacolo piuttosto che un altro; spesso più spettacoli contemporaneamente. Fuori dal tempio si fanno altri tipi di spettacolo, comunque sempre in rapporto al calendario delle festività, però ad esempio, come nei nostri teatri, la gente paga il biglietto. Nel tempio invece lo spettacolo è fatto per gli dei e gli spettatori umani sono un’aggiunta. Lo spettacolo in sé a volte è lo stesso, è il contesto che cambia.

La partecipazione del pubblico è prevista nel rituale rispetto al teatro?

Sì è prevista, ma non è necessaria. Per fare un esempio, ricordo che nella casa del mio maestro era in corso una cerimonia legata al tempio di famiglia ed io ero felice di interpretare per la prima volta il Topeng Pajegan, letteralmente Topeng Variegato, dove un solo attore interpreta tutti i personaggi (in realtà non ero da solo, perché non conoscendo il balinese, un altro attore faceva la parte di Penasar, il narratore). Gli amici mi avrebbero visto! Tuttavia, siccome era una cerimonia e c’erano tante altre attività in corso, loro erano impegnati in altre mansioni durante lo spettacolo. Gli unici “spettatori” furono due o tre turisti stranieri – mi pare americani- che erano venuti apposta per vedere lo spettacolo.

Nelle occasioni rituali spesso gli spettatori balinesi assistono alle parti comiche e parlate del topeng, perché lì ci possono essere le “novità” dello spettacolo. Ma non è obbligatorio, perché lo spettacolo viene fatto per gli dei, normalmente gli spettatori vanno e vengono. Nelle cerimonie ad esempio accanto al Topeng, a pochi metri, eseguono il Wayang Lemak – cioè il Teatro d’ombre fatto di giorno – e poco distante si declami al microfono la lettura del Ramayana o di altri testi della letteratura indo-giavanese. Immaginate tutti i suoni che si mescolano!

Diversa è la situazione profana, fuori dal tempio, dove, come accade da noi a teatro, ci si siede e si segue lo spettacolo dall’inizio alla fine.

Il pubblico non è fondamentale, ma la presenza scenica dell’attore deve essere sempre la stessa. Ricordo che per loro è molto importante questa presenza, l’attore a Bali cerca nell’eseguire lo spettacolo una connessione con le divinità. Il suo è un lavoro di ricerca verso l’alto che poi va a comunicare con il pubblico. Correggimi se sbaglio.

Lo spettacolo dal punto di vista formale non cambia. I musicisti suonano allo stesso modo e l’attore fa quello che deve fare, a prescindere dal numero di spettatori. Mi è capitato di assistere a cerimonie Topeng dove l’attore non aveva pubblico a cui raccontare la storia e la raccontava al gamelan, per cui gli stessi musicisti diventavano gli spettatori.

I balinesi anche quando fanno gli spettacoli per i turisti lo fanno con la stessa dedizione, lo spettacolo rispetto a quello della cerimonia è più breve, ma l’intensità e la partecipazione è sempre forte. Dal punto di vista spettacolare si può vedere meglio che non in una cerimonia religiosa, dove l’ambiente più dispersivo, essendoci contemporaneamente più spettacoli non c’è la stessa focalizzazione. E’ quello che Savarese aveva notato a proposito dello spettacolo visto da Artaud nel 1931 a Parigi. Vedere lo spettacolo nella scatola nera di un teatro europeo è diverso dal vederlo nel contesto autoctono, più dispersivo, quale è una cerimonia religiosa.

Insisto sulla presenza del pubblico, il pubblico può interagire con il performer?

Non esattamente. Ti riferisci forse al coinvolgimento di possessione o trance? In questo caso si, sono stato testimone di una cosa del genere durante un rituale. Nel tempio di un piccolo villaggio sperduto avevo danzato anch’io accompagnando il mio maestro in un grande Topeng Prembon (dove il topeng si combina con l’Arja, l’opera balinese) dove si erano usate le loro maschere, custodite nel loro tempio e benedette per l’occasione. Nel finale, quando I Made Djimat interpretava l’ultimo personaggio, Sidha Karya, uno spettatore gli ha strappato la maschera, subito altri sono corsi a indossare tutte le altre maschere e, come invasati sono corsi fuori per il villaggio, quando tornarono alcuni di loro erano ancora in uno stato di possessione. Come accade in queste circostanze, vennero riportate alla normalità grazie al Manku, il sacerdote, con preghiere, incensi e aspersioni di acqua magnetizzata, l’acqua santa. Ecco questo può essere considerato un caso di “partecipazione”, però è molto raro.

L’interazione col pubblico non è frequente, nel topeng si può vedere l’attore, nei ruoli comici, sedersi tra il pubblico o interagire con qualcuno. A Bali teatro, musica e danza appartengono alla vita sociale di tutti, la “animazione” come la intendiamo in Europa non è certo necessaria!

Prima hai citato Grotowski, dicendo il mio maestro. Qual è stato il tuo rapporto con lui, da attore italiano, quando l’hai incontrato.

Incontrai Grotowski nel 1975 a Venezia nell’ambito della biennale, dove il gruppo nel quale lavoravo, il Teatro Tascabile, aveva presentato il suo spettacolo. G. era presente con il suo spettacolo “Apocalipsis cum figuris”- che vidi un paio di volte. In quell’occasione G. incontrava i gruppi italiani in un’isoletta della laguna e quindi ci fu l’occasione anche per il Teatro Tascabile di incontrarlo; mostrammo il nostro spettacolo. Dopo di che lavorò con alcuni di noi, tra cui io. Qualche giorno dopo mi invitò ad un incontro di lavoro col suo amico Peter Brook e da allora tra noi si instaurò un rapporto di amicizia. Mi invitò qualche anno dopo a partecipare a un incontro con altre persone da tutto il mondo a Brzezinka. Era il periodo para teatrale di Grotowski, che poi avrebbe portato al “Teatro delle Sorgenti”.

In quell’occasione, fine novembre-dicembre del 1978, stavo pensando di andare in India- allora il Teatro Tascabile, Renzo Vescovi, aveva deciso che noi attori dovevamo studiare in modo professionale qualcosa del teatro orientale, in particolare di quello indiano di cui avevamo già avuto qualche esperienza qui a Bergamo. Quando chiesi a G. di darmi qualche consiglio su dove andare in India, il contatto di maestri o scuole, visto che lui ci era già stato, mi disse: “No, tu devi andare a Bali”. E allora pensai: “ok boss” e spostai il mio viaggio molto più ad Oriente. Fu dunque grazie o per colpa di Grotowski che invece di dedicarmi a qualcosa del teatro indiano, mi sono dedicato al teatro-danza e alla musica di Bali.

Un’ultima cosa, secondo te è necessario la distinzione tra teatro ragazzi, teatro di prosa etc.? Altrove si fanno queste distinzioni? Cosa ne pensi.

Io conosco in modo approfondito il teatro di Bali, dove non esiste il teatro ragazzi. Gli spettacoli vengono visti sia da bambini che da adulti. Leggevo, giusto qualche giorno fa, di Wija, un Dalang (i manovratori del teatro d’ombre) che ha sviluppato un lavoro particolare con i bambini, facendoli partecipare e dando a ciascuno un personaggio. Ma questa è un’esperienza moderna. Esistono varie forme di teatro a Bali: solo di danza o anche con canto e parola, con interpreti maschili o femminili o misti; con o senza maschere, sempre con musica e sempre in continua evoluzione. La distinzioni tra teatro di prosa, danza, opera etc. è una cosa della nostra cultura, sviluppatasi negli ultimi secoli, ma tradizionalmente nel teatro indiano, cinese, giapponese, che conosco io, non c’è. In India oggigiorno ci sono compagnie che fanno quello che noi chiamiamo teatro di prosa, rappresentando Shakespeare o autori indiani, magari accompagnati da musica dal vivo, cosa che da noi purtroppo ormai raramente si usa. Io personalmente non amo queste distinzioni in categoria, penso che se uno spettacolo vale, possa essere fruito, con diversi livelli di lettura, sia da un pubblico adulto che da un pubblico di bambini.

Nella Sala di Isabelle il Capriolo tutto è pronto per le prove. Decidiamo non solo di assistere ma anche di accompagnarli suonando kempli e gangsa. Meravigliosi ricordi di una magica collaborazione.

intervista a cura di Pierpaolo Bonaccurso e Greta Belometti