IPPOLITO CHIARELLO. DAL BARBONAGGIO TEATRALE AL TEATRO D’ASPORTO

TI VOLEVO CHIEDERE INNANZITUTTO UN PO’ DELLA TUA STORIA, DA DOVE VIENI E CHE STRADA HAI FATTO PER ARRIVARE FINO A QUI.

La prima cosa che mi viene da dire è che non volevo fare l’attore. Questo lavoro me lo sono ritrovato per caso e ho sempre detto che per me la definizione di attore non mi comprende. Sono un po’ alla Carmelo Bene e come lui odio gli attori che non hanno niente intorno. Questo lavoro nasce veramente per caso e mi sono sempre trovato a farlo con molta intensità, tutti i giorni, da quando avevo 16 anni. Ho iniziato veramente dalle cose più basiche, la parrocchia, gli spettacoli in dialetto, ho fatto tutto quello che si poteva fare, tutte le frequentazioni più crude di questo mestiere e tutte mi hanno aiutato. Fondai una compagnia di teatro amatoriale ma poi decisi di non fare più niente, perché mi dicevo, il teatro è bellissimo ma volevo laurearmi, cosa che ho fatto. Fare il teatro è una cosa complicata specialmente se la devi fare da amatore, la passione ti prende troppo e per questo motivo, decisi di lasciare. Era Il 6 luglio del 94, ma proprio quel giorno ricevo una telefonata che mi avvisava di alcuni provini. Il giorno stesso che avevo deciso di non fare più l’attore mi cercano per continuare a farlo. Una cosa profetica, alla fine ci sono andato. Da lì è partita una mia frequentazione all’interno del Teatro Koreja durata circa dieci anni. Ho fatto con loro tutti gli spettacoli più importanti, ero diventato un po’ l’attore di punta.

Poi, come è giusto che accada, c’è stata la separazione. E’ stato un bene che sia stato così. Nel 2004 è cominciata questa mia nuova direzione, facendo teatro da solo, senza una compagnia, facendo degli spettacoli anche molto fortunati. Sono tornato veramente alle origini soprattutto provando a vendere lo spettacolo direttamente, senza gli organizzatori, proprio per strada. Da lì è partito questo viaggio straordinario che mi ha cambiato la vita, le prospettive, la visibilità, facendo la cosa più antica del mondo. In fondo non ho inventato nulla. Ho solo dato un nome a qualcosa che esisteva, una sorta di “carro di Tespi” , che io ho chiamato BARBONAGGIO TEATRALE. Penso che se il teatro vuole continuare ad esistere, deve tornare a essere radicale.

Il BARBONAGGIO TEATRALE si è sviluppato, in questi dieci anni, facendomi capire che c’era un sacco di gente che mi aspettava per strada. Non è un ripiego del tipo, “non so che fare e me ne vado per strada”, per me è un’azione che ritengo fondamentale, al di là della pandemia. Faccio lo spettacolo per strada usando dei segni precisi, che sono il palchetto e il mio costume. Perché questa è una cosa che lo contraddistingue. Bisogna avere un palchetto e questa cosa mi ha accompagnato per tanti anni, così come un costume che, come nel teatro greco, è uno degli elementi che rende riconoscibile l’attore. Adesso, ovunque vado, l’impermeabile che uso come costume e quel palchetto, sono elementi riconosciuti. Considero la mia un’azione politica e poetica.

Poi è arrivata la pandemia, dopo il primo look down il silenzio è stato assordante, quello degli artisti in particolare. Il mio progetto ha scatenato anche degli scontri violentissimi, soprattutto da parte di quei critici e quegli artisti che, stando a casa, dicono che questo non è teatro, che noi siamo attori disperati. Di contro ci sono tantissime compagnie che mi contattano per potersi ispirare al mio lavoro. Il Teatro Stabile dell’Umbria si sta muovendo per sostenermi. Lo stesso Comune di Lecce mi ha dato dei soldi per fare cinque interventi in cinque situazioni diverse. Persino le scuole, in questo momento di grande difficoltà, mi hanno chiamato. Le dirigenti mi hanno detto che i bambini avevano bisogno come il pane di quello che io facevo. In questo periodo non avrei mai pensato di poter entrare nelle scuole a portare il mio spettacolo, è stato molto faticoso, ogni 15 minuti due classi per volta venivano sotto un gazebo, dove i bambini, tutti ordinati ed organizzati, quasi “bevevano” quello che facevo. Anche per questa mia esperienza penso che il teatro debba essere fatto necessariamente dal vivo.

 

SE DOVESSI DARE UN CONSIGLIO A UN RAGAZZO CHE VUOLE FARE L’ATTORE.

Gli direi di cominciare a incontrare i maestri giusti, perché il teatro è un po’ come quella pubblicità del caffè: “…è un piacere ma se non è buono che piacere è? Se il teatro lo inizi con persone sbagliate ti può veramente fare l’effetto contrario. Quindi incontrare un giusto maestro, una giusta persona che ti guida all’interno di questo mondo meraviglioso, è sicuramente uno dei consigli più importanti. Una volta scelta questa strada però devi farla fino in fondo, senza aspettare di diventare famoso. L’aspirazione può essere una giusta spinta ma importante è anche il lavoro invisibile. Un po’ come nella canzone di Ligabue, “una vita da mediano”, i mondiali si vincono per i Paolo Rossi, ma anche e soprattutto per il lavoro duro e infaticabile di Oriali, il mediano. Ecco io mi sento come lui, un mediano che lavora sodo Sinceramente però faccio un sacco di lavoro perché il teatro possa essere conosciuto.

 

SECONDO TE ESISTE UNA QUESTIONE MERIDIONALE CHE RIGUARDA IL TEATRO. C’È UNA DIFFERENZA SE NASCERE E FARE L’ATTORE A MILANO SIA UGUALMENTE POSSIBILE A LECCE O A NAPOLI?

Dico che chi nasce al sud ha una grande potenza di fuoco. Poi magari ha più difficoltà a organizzarsi in ambito professionale, ma chi sta al Nord magari ha meno stimoli. Ad esempio la Puglia grazie a politiche culturali illuminate, negli ultimi dieci anni, è diventata una eccellenza in ambito culturale. Penso quindi che non ci sia una questione meridionale del teatro, piuttosto una questione italica.

 

SE DOMANI IL MINISTRO FRANCESCHINI TI CHIAMASSE PER CHIEDERTI COSA DEVE FARE, TU CHE COSA GLI DIRESTI.

La prima cosa è a livello economico, trovare un modo perché economicamente si possa superare l’emergenza. La seconda cosa fondamentale è che deve coordinarsi con tutto quello che è nato in questi mesi e che non si era mai mostrato, i vari coordinamenti degli artisti per esempio, che si sono messi insieme. Io metterei tutti intorno a un tavolo, ma seriamente per riordinare finalmente questa categoria. Dargli una veste, perché questa categoria non ce l’ha. Fare impresa culturale è una bella conquista ma non può essere solo con parametri numerici, dev’essere considerata come qualcosa che ha una funzione nella società. Questo direi a Franceschini di mettersi al lavoro per fare questo.

 

VOLEVO CHIEDERTI CHE IDEA HAI DEL TEATRO PER RAGAZZI OGGI E SE IL TUO VISSUTO DI BARBONE TEATRALE PUÒ AVERE UNA ADERENZA CON IL TEATRO PER RAGAZZI.

Assolutamente sì. Io sono nato artisticamente nel Teatro Koreja, i primi 6 anni della mia vita da professionista l’ho fatto nelle scuole, quando ancora non si portavano i ragazzi nei teatri, ma era il teatro ad andare nelle scuole, ero anche l’addetto all’oscuramento delle finestre e poi facevo lo spettacolo. Abbiamo fatto tantissimi spettacoli. Poi c’è stata da parte mia una grande pausa e adesso ho ritrovato questa vicinanza con il mondo dei bambini. Io penso che il BARBONAGGIO teatrale abbia una grande possibilità sui più piccoli perché i bambini giocano continuamente ed è quello che sto facendo: li faccio giocare con gli elementi del mio spettacolo, del mio intervento. Li faccio salire sul palchetto e gli faccio raccontare le storie da una prospettiva diversa, con l’idea di avere un luogo, più privilegiato da cui parlare. Gli spiego qual’è il mio mestiere e altro ancora. Per esempio ho fatto un grande progetto, in cui i bambini alla fine si mettevano su vari palchetti sistemati in diversi punti della città, vestiti da sindaco oppure da altri personaggi, facendo i grandi e spiegando ai passanti come si dovevano comportare. Il BARBONAGGIO TEATRALE ha senza dubbio una componente di gioco e di prossimità con i bambini che è fortissima. I bambini, quando vedono questo piccolo luogo che creo, la mia piccola pedana, il mio costume, capiscono subito che qualcuno sta regalando qualcosa al mondo e se la prendono.

 

Intervista a cura di Maurizio Stammati