TEATRI SENZA FRONTIERE 2024 – LUSAKA/ZAMBIA – IL DIARIO DI MARCO RENZI

Di solito un diario si scrive nel mentre qualcosa si svolge: una vacanza, un viaggio, un periodo della vita ecc. La scrittura periodica ci restituisce poi, alla fine dell’esperienza, un quadro a volte straordinario di quello che abbiamo vissuto. Quello che segue non è un diario nel senso stretto della parola, ma una riflessione finale su un’esperienza fuori dal comune, una scrittura supportata da foglietti volanti sui quali sono stati fatti appunti quotidiani, dove e come si poteva. Non è stato possibile sedersi a sera e aggiornare queste riflessioni nei giorni stessi dello svolgimento del progetto per delle ragioni molto pratiche, Lusaka, capitale dello Zambia, città che ci ha accolto ed ospitato per due settimane, è stata, come del resto tutta la Nazione, costantemente soggetta a black out elettrici dovuti all’assenza prolungata di precipitazioni. Non piove dal mese di gennaio (siamo a Settembre) e la quasi la totalità dei fiumi ha lasciato posto a polvere e terra, escluso lo Zambesi, il quarto fiume africano per lunghezza, che, per fortuna, porta ancora acqua. In queste condizioni di siccità estrema, un Paese che ha basato la sua sussistenza energetica sull’idroelettrico si è trovato praticamente in ginocchio, questo, unitamente ad altre difficoltà proprie del luogo, ha impedito che un diario si potesse comporre giorno dopo giorno, lasciando spazio ad una scrittura postuma che speriamo riesca a restituire i colori di quello che è stato “Teatri Senza Frontiere” in Zambia.

Siamo partiti da Roma e invece di puntare a sud, l’aereo ci ha portato a Londra, da dove, con un altro volo, siamo scesi ripercorrendo la stessa strada che avevamo fatto poche ore prima, questa volta però puntando diritti verso Kigali, capitale del Ruanda, da dove con un salto finale, e dopo venti ore complessive, siamo arrivati a Lusaka.

Il tratto di volo Roma-Londra è più o meno lo stesso di Kigali-Lusaka, un paio d’ore e poco più, all’andata abbiamo volato con “British Airways”, compagnia blasonata e famosa in tutto il mondo. A metà volo ci hanno dato un sacchetto con 10 chicchi di mais abbrustoliti, contati, dieci, e una bevuta, stop. Da Kigali a Lusaka abbiamo volato con “Ruandair”, compagnia di bandiera del piccolo stato del Ruanda. Nelle due ore e mezzo di volo ci hanno dato tre volte cose da mangiare: snack, panini, sandwich e da bere a volontà. E’ proprio vero quel proverbio che dice: più si è ricchi e più si è tirchi.

Lusaka è una grande città, una capitale, wikipedia dice che nel 2018 faceva un milione e trecentomila anime, credo che nessuno sappia con certezza quante persone popolano questo agglomerato ma di certo oggi superano abbondantemente i due milioni. Come in molte altre grandi città africane, l’accoglienza avviene in avveniristiche strutture aeroportuali, oltre le quali si apre poi la vera anima pulsante dell’Africa, quella che se non ci sei mai stato di catapulta all’indietro e che se già conosci hai il piacere di riabbracciare.

L’aeroporto di Lusaka, seppure fregiatosi del nome di internazionale, è un modesto scalo da dove partono ed arrivano pochi voli, nei grandi saloni ci si muove fin troppo agevolmente e una volta fuori si assiste al solito assalto dei tassisti, dei porta valige e via dicendo. Poi, dopo un’ora di strada, si arriva finalmente alla città.

Nei giorni in cui siamo stati ospiti di Koinonia Community, la missione guidata da Padre Renato Kizito Sesana, un carismatico missionario italiano originario di Lecco, abbiamo girato la capitale in lungo e in largo per raggiungere i vari luoghi di spettacolo e ben presto i finestrini del van si sono riempiti di quello che già avevamo visto a Nairobi e prima ancora ad Accra e Addis Abeba: strade piene di buche in cui è impossibile procedere se non fermandosi continuamente, slalom tra una buca e l’altra per trovare il passaggio migliore, dossi alti come colline, traffico, chilometri di incerte e traballanti bancarelle con milioni di persone che camminano ovunque. Dalle vie principali si diramano centinaia di strade di terra rossa con nuvole di polvere che si

depositano ovunque, una babilonia di suoni e voci che riempie ogni cosa e lascia interdetti, anche quelli che come me non sono nuovi a questi contesti.

Non ci sono Piazze a Lusaka, né punti di riferimento che possano indicare un luogo definibile come centrale, solo e sempre vie che si intrecciano in continuazione. C’è un monumento davanti a un ministero con uno schiavo che spezza le catene e un’aquila, in cima ad una piramide di rocce, su una rotonda stradale, per il resto nulla. C’è una zona ricca, dove sta il palazzo presidenziale, unico ad avere prati verdi, strade senza buche, marciapiedi e alberi rigogliosi, intorno a questa oasi un mare di miseria dove milioni di persone si affannano a vendere qualcosa per potersi comperare da mangiare. E’ il ritratto di un mondo storto che racconta del fallimento del genere umano su questo pianeta e purtroppo non lo racconta solo a Lusaka, né solo in Africa.

Miliardi di esseri umani vivono in condizioni vergognose che fanno da contraltare a lussi sfrenati che qui appaiono ancora più incredibili, si continuano a spendere ingenti risorse per fare guerre e creare morte senza pensare che siamo non solo di passaggio, ma in sosta brevissima su una piccola e insignificante pallina che galleggia nell’universo sterminato. Investendo nella vita quello che stanno costando le sole due guerre di cui attualmente si parla nella civilissima Europa: Ucraina e Palestina, la miseria scomparirebbe da un giorno all’altro, trasformando la Terra in un giardino sempre in fiore, abitato da esseri umani con un futuro e un’esistenza degna di essere vissuta. Così però non è, guerre e armi sono in crescita ovunque, anche quaggiù, nell’Africa della povertà assoluta, stati e statarelli si combattono da anni: per un pezzo di terra arida, per il potere, la religione, l’etnia, per la follia che da sempre accompagna la nostra presenza e non si vedono all’orizzonte segni di inversione, anzi, ogni giorno è sempre peggio. Siamo con ogni probabilità destinati alla sconfitta della specie, ma prima di cedere le armi, usando un linguaggio guerrafondaio, combatteremo fino all’ultimo respiro, cercando di lasciare ovunque testimonianze di vite che si sono opposte per seguire un cammino diverso e in tal senso la presenza di Padre Kizito ci appare monumentale.

Questo prete, dalla barba e capelli lunghi bianchissimi, da oltre quarant’anni costruisce cattedrali della solidarietà che ci riappacificano con il genere umano, è partito da Lusaka, poi a Nairobi ed anche in Sud Sudan, ha creato case, centri di sostegno, scuole, attività produttive, accoglie oltre le sue possibilità ragazzi e ragazze che vivevano in strada e che sarebbero stati destinati ad una fine precoce e terribile: li veste, li sfama, li fa studiare, restituendoli alla vita e alla speranza. Da anni i soldi che arrivavano dall’Italia sono in caduta libera e lui ha aperto ristoranti, alberghi, campi coltivati, attività produttive, cercando di creare profitti che poi reimmette nel ciclo della solidarietà. Ha ottantuno anni Padre Kizito e continua a ragionare in termini di debbo fare questo e domani quest’altro, da qualche anno ha lasciato l’ordine dei comboniani, di cui ha fatto parte sin da quando è stato ordinato sacerdote, lo ha fatto perché lo avevano invitato a fermarsi e a trasferirsi in una casa di riposo in Italia per godersi la vecchiaia, lui ha detto no, ha voluto continuare, al fianco della sua Africa alla quale ha dedicato l’intera vita. Padre Kizito è non solo un Padre nel senso cristiano della parola ma lo è anche nei fatti, Padre di centinaia e centinaia di ragazzi che grazie alla sua opera hanno potuto studiare, avere affetto, comprensione e futuro, molti si sono inseriti nel mondo del lavoro, altrettanti sono rimasti nella comunità e adesso si occupano di tendere la mano a chi ne ha bisogno, chiudendo un cerchio virtuoso che fa girare la testa. Questi sono gli uomini ai quali dovremmo erigere dei monumenti più che agli impettiti generali di turno che hanno mandato al massacro migliaia di persone per la propria vana gloria.

Siamo stati per due anni a Nairobi, nelle sue strutture, quest’anno a Lusaka, abbiamo visto cosa è riuscito a fare e gli staff che ha creato, gli stessi che garantiranno il proseguo dell’opera anche quando lui non ci sarà più: giovani motivati, capaci, tenaci, abituati a camminare in salita, gente che non si lascia prendere dallo sconforto e che combatte ogni giorno per lasciare quel segno di direzione contraria a cui si faceva riferimento dietro. E’ un concetto importante questo, le dimensioni della miseria sono così grandi che la prima reazione è lo smarrimento, ci si chiede da che parte cominciare e un senso di impossibilità sembra prevalere su ogni cosa. Bisogna invece prendere esempio da questi eroi al contrario e lasciare testimonianze agli archeologi del futuro, reperti dove possano capire che qualcuno si è opposto, preferendo camminare su altre strade, diverse da chi, ceco e stupido, ha continuato a seminare morte e sofferenza, smarrendo il senso vero della vita e la sua unicità.

Hanno poche risorse al Mthunzi Centre di Padre Kizito di Lusaka, si vede e nessuno cerca di nasconderlo, ma garantiscono l’essenziale, un piatto di polenta e fagioli non manca mai e soprattutto quello che si trova ovunque è il sorriso sulle labbra, l’entusiasmo, la volontà di farcela, questo stupisce e questo illumina ogni cosa, anche quando manca luce ed acqua. Siamo stati due settimane in questa struttura, un complesso di edifici cresciuti in un’area che in origine era solo campagna attorno alla capitale e che oggi è parte della città, che espandendosi è arrivata fin lì. La comunità ospita una cinquantina di bambini e ragazzi strappati alla strada e quasi certamente alla morte, c’è un ponte in centro, vicino alla stazione ferroviaria, dove questi ragazzi, spesso anche bambini, si ritrovano, sono stati buttati fuori dalle loro famiglie per ragioni diverse: morte dei genitori causa malattie o aids, povertà assoluta, padre o madre che si risposano con arrivo di altri figli e via dicendo, sotto al ponte respirano bottigliette piene di kerosene, come abbiamo visto fare da loro coetanei anche a Manaus (Amazzonia), in questo caso con la colla, usano queste droghe povere e micidiali perché sballano e smorzano la fame, senza sapere che li distruggeranno in poco tempo. Sono spauriti e smarriti, vivono di elemosina chiesta a gente che non ha già nulla, ogni tanto la polizia ne acchiappa qualcuno e lo porta nelle strutture di accoglienza che ci sono e che uomini di buona volontà hanno provvidenzialmente creato, come quella in cui siamo.

A Mthunzi non hanno camere singole ovviamente né pasti elaborati da offrire, i ragazzi stanno insieme, studiano e crescono. E’ commovente vedere un ragazzo grande che prende in braccio uno piccolo per farlo giocare, sono famiglie che si formano e disfano più volte nell’arco della giornata, perché la vera famiglia è la comunità in cui vivono. Nel centro c’è anche una Scuola con cento ragazzi a tempo pieno che lì dormono, pagando una retta che serve a sostenere quelli che non hanno nessuna disponibilità. C’è anche una scuola femminile, studiano tra le altre cose come fare agricoltura: ci sono terreni coltivati, un campo per giocare a basket ed anche un bellissimo anfiteatro dove il gruppo acrobatico di Mthunzi si esibisce. Saltano, rimbalzano, ballano, suonano i tamburi, cantano, sono circa una ventina, tutti dalla fisicità prorompente, capaci di stupire e di fare cose che sfidano la gravità. Un ensemble di loro, una decina, sono venuti in Italia a Maggio e hanno fatto spettacoli a Lecco e dintorni, nell’occasione siamo stati a vederli ma quello che ci hanno mostrato a casa loro è stato molto diverso. C’è un pezzo dello spettacolo in cui uno sciamano/stregone cerca di guarire un giovane malato di un ipotetico villaggio, la scena è molto suggestiva e lo stregone, tutto striato di bianco e arricchito da campanelli alle caviglie, si muove vibrando ad una velocità impressionante, poi, ad un certo punto, porta in scena una gallina viva e vera, pratica dei segni nell’aria e sul corpo del ragazzo malato, e, all’apice della scena, morde la gallina al collo e glielo stacca, quindi versa il sangue sulla bocca del malato e questi guarisce. In Italia questo pezzo non lo hanno fatto, sarebbe successo il finimondo, ma a casa loro si e per le due volte che abbiamo assistito all’evento il pollo ci ha lasciato le penne. E’ stato un momento forte, a cui non siamo abituati, ci ha portato fuori dalla finzione dello spettacolo per restituirci alle tradizioni di un popolo da sempre animista, legato a riti che a volte prevedevano questo e anche oltre. Non mi ha dato fastidio vedere questa scena, mi ha emotivamente colpito ed anche tanto, Padre Kizito era tranquillo e ci ha detto che l’indomani avremmo mangiato pollo.

Lusaka non ha trasporto pubblico, solo piccoli pulmini da nove/dodici posti, tutti Toyota, che percorrono senza sosta le infinite strade, oltre ovviamente ad Huber e pochi taxi che si vedono solo in aeroporto. Si estende su un’area molto grande e in continua espansione, per attraversarla occorre almeno un’ora e mezzo di auto. Nelle periferie le abitazioni sono piccole baracche in muratura, una accanto all’altra, poi, man mano che si arriva al centro si possono vedere delle case simili a quelle che conosciamo in Europa, per andare oltre il primo piano si deve arrivare ai quartieri bene e solo al centro svetta qualche timido grattacielo di una ventina di piani, pochi rispetto a Nairobi, in un contesto di banche e attività finanziarie.

Girando nei variegati mercati, quelli più strutturati e ospitati in edifici in muratura, è come attraversare una fiera campionaria del generatore elettrico, ogni negozio ne ha uno e insieme fanno la sinfonia dell’elettricità che manca. Molto forte e visibile è la presenza cinese, non solo negozi ma grandi strutture con tanto di bandiera nazionale al vento e scritte senza lettere.

Dopo quattrocento anni di schiavitù, ne sono seguiti altri di colonialismo inglese e dal 1964 il Paese è indipendente, almeno sulla carta. Come tutti gli Stati africani, una volta liberi dai padroni europei, che spesso non se ne sono mai andati, anche lo Zambia ha visto e salutato una schiera di nuovi “amici”, primi fra tutti i cinesi, ma ci sono anche evidenti presenze turche, non ne abbiamo viste dei russi che evidentemente in questo Stato non hanno avuto fortuna o forse hanno preferito puntare altrove visto che qui la piazza era già affollata. Le imprese cinesi, che già avevamo conosciuto in Etiopia come pure in Ghana e in Kenya, qui costruiscono strade e infrastrutture, comprano terra, piantano bandiere, in un risiko che non conosce soste e non si capisce cosa lasci agli africani, o meglio, basta guardarsi intorno per avere la risposta.

Viaggiare di notte a Lusaka è un’esperienza trascendentale, a parte alcune strade centrali che hanno dei fiochi lampioni pubblici, il resto è buio totale, reso ancor più fitto dal fatto che loro sono neri e non si vedono. Alle sei di pomeriggio scende la notte, le strade sono ancora piene di gente, le bancarelle aperte ovunque e senza luce, i generatori li hanno solo i negozi più attrezzati e in muratura, la stragrande maggioranza dei venditori ha solo quattro legni su cui poggiare quel poco di mercanzia che c’è e null’altro. La macchina si muove in un mare di buio e solo i fari illuminano, sia a destra che a sinistra, un’umanità brulicante che va in ogni direzione, e tutti gridano, e tutti sorridono.

La vita non costa nulla rispetto a quella a cui siamo abituati, una birra in un locale può oscillare tra i 25 e i 50 centesimi di euro, con 5 euro, a Livingstone, abbiamo mangiato ottimo pesce del fiume Zambesi. Lo stipendio medio è di circa 200 euro al mese per un Insegnante, la benzina viene importata e costa poco più di un euro al litro, quindi spostarsi è una spesa considerevole ed ecco spiegato il motivo delle strade sempre piene di gente, vanno a piedi. In Zambia non fuma praticamente nessuno, in due settimane ho visto una sola persona accendersi la sigaretta, per fortuna, perché quello che respirano dal traffico vale già un pacchetto al giorno. Non c’è raccolta di spazzatura, forse solo in qualche quartiere ricco, per il resto ci sono rifiuti dappertutto e ovunque si bruciano, liberando diossina in un’aria che già non è delle più salubri. Anche nella missione c’è una buca scavata nel terreno dove si butta di tutto, quando è piena qualche anima buona provvede a dargli fuoco e nella buca si libera spazio. La plastica è ovunque, non c’è metro di terra che non ne ospiti una considerevole esposizione, d’altra parte non esistono cestini da nessuna pare, solo nei centri commerciali è possibile trovarli, la gente butta a terra e lì le cose restano. Un carro armato di meno e si avrebbero i soldi per organizzare la raccolta dei rifiuti, un altro ancora e si pagherebbero gli addetti necessari per farla funzionare, con un terzo la città sarebbe completamente ripulita. Ci sono due grandi vie, separate nel mezzo da una striscia di terra larga circa venti metri e lunga un paio di chilometri, piena di plastica a perdita d’occhio, su questo terreno lunare si aggirando molte persone: rovistano, ammucchiamo e danno fuoco, uno spettacolo da girone infernale, niente che possa eguagliare Korogocho a Nairobi, che resta uno spettacolo inarrivabile, ma anche qui a Lusaka questo pezzo intimorisce quanto basta.

Non c’è ovviamente la rete di distribuzione del metano, ci sono rivendite di bombole di gas che arriva dal Mozambico ma che pochi utilizzano, la maggior parte della gente cucina con il carbone e le rivendite di questo minerale sono pressoché ovunque. Anche nella missione, le donne addette alla cucina, usano il carbone e non hanno voluto il gas, hanno paura che possa esplodere. Il carbone viene venduto in ogni angolo di strada, confezionato su sacchi lunghi circa un metro e mezzo e quei pochi che hanno la fortuna di avere una bicicletta ne trasportano fino a sei sette alla volta, creando un accrocco che, sfidando le leggi della gravità, riesce a muoversi. Ci sono poi degli spiazzi interamente dedicati al carbone e qui siamo al settimo girone, con la polvere nera che avvolge e copre ogni cosa, persone incluse.

Altro elemento caratteristico della vita a Lusaka sono le rivendite di telefonia, ce ne sono ovunque, un’infinità di baracchette dove dentro può stare una sola persona, una accanto all’altra, con i colori della compagnia telefonica a distinguerle, se ne trovano a gruppi praticamente dappertutto. La medaglia per la vendita più inusuale va però alle pietre, lungo molte strade è possibile vedere piccole torri di pietre accatastate, come se qualcuno le avesse raccolte per pulire il terreno, invece sono in esposizione e possono essere comperate. Non si capisce quale potrebbe essere l’acquirente ma se ci sono e anche in maniera massiccia, significa che hanno un mercato.

E’ un Paese giovane lo Zambia, google dice che l’età media è stimata in 16 anni e mezzo e l’aspettativa di vita si ferma a 58 anni, in sostanza una nazione di bambini e ragazzi. Abbiamo fatto spettacoli in diverse scuole, sia pubbliche che private, e questa giovane nazione l’abbiamo vista materializzarsi, con plessi gremiti fino all’inverosimile. Forse una riflessione su questo va fatta e sarebbe il caso che qualcuno spingesse più a fondo l’acceleratore della contraccezione, mettere al mondo tanta vita quando non ci sono le condizioni di sopravvivenza per la stessa non è del tutto sensato.

Tra gli episodi divertenti senza dubbio va annoverato quello di uno spettacolo che siamo andati a fare in un centro che protegge donne che hanno subito violenza, sono state accolte tra le amorevoli e provvidenziali mura di una chiesa cattolica che ha messo a loro disposizione un capannone dove sono fioriti, uno accanto all’altro, tanti materassi a terra, a testimoniare una forte solidarietà tra chi ha subito la prepotenza degli altri. Queste donne avevano tutte dei vestiti fatti con la medesima stoffa, una pezza azzurra con riprodotti dei cerchi dentro ai quali faceva bella mostra di se Papa Francesco. Vedere l’immagine del Santo Padre dondolare sui sederi o sui seni di queste donne è senza dubbio uno spettacolo che non si dimentica.

Di notte, grazie anche alla mancanza di energia elettrica, si gode di un bel cielo stellato, le costellazioni sono diverse dalle nostre ma ciò che colpisce di più è che non passano aerei, a rimarcare che siamo in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini, un luogo che forse non sta in questo pianeta, ma altrove, a riprova di un viaggio che non è stato solo nello spazio ma anche nel tempo.

L’Africa ti sbatte addosso la sua povertà senza vergogna, avvicinandola senza pudore alla bellezza assoluta della sua natura, fatta di colori e di animali fantastici. Il mal d’Africa esiste, lo si avverte ogni qual volta si prende l’aereo per andarsene, è una terra strana questa, si attacca addosso come il colore sulla tela, per restarci a lungo. Forse questo continente non riuscirà mai a decollare, perché a molti fa comodo che stia perennemente sulla pista di lancio, in eterna attesa del via libera dalla torre di controllo, in fondo è un gigantesco serbatoio di mano d’opera a costi strabilianti e un pozzo di preziose risorse che fa luccicare gli occhi a molte potenze. Forse è così o forse no, non ho prove da portare, l’unica che può essere chiamata a testimoniare è la miseria ma è così grande che nessun tribunale riuscirebbe a contenerla.

Siamo stati invitati all’inaugurazione di una Scuola fatta da un’associazione italiana, ci hanno chiesto di fare lo spettacolo ed abbiamo accettato, era stata annunciata anche la presenza dell’ambasciatore italiano a Lusaka. Siamo arrivati, abbiamo fatto lo spettacolo, ascoltato tutti i discorsi di rito e va sottolineato come a queste cose in Africa ci tengano moltissimo, poi ci siamo cambiati e ce ne siamo andati. All’uscita, in strada, davanti al cancello, incrociamo un signore con un cappello borsalino che ci dicono sia l’ambasciatore: saluti, foto di rito, sorrisi e via dicendo. Gli raccontiamo quello che facciamo in Italia e cosa siamo venuti a fare a Lusaka, si rammarica di non aver saputo prima della nostra presenza, avrebbe di sicuro organizzato qualcosa. Gli mostriamo allora con il telefonino una mail del 18 marzo in cui avevamo scritto alla sua ambasciata e la risposta che ci avevano dato, prendevano atto del progetto e ci chiedevano di cosa avevamo bisogno. Segue nostra ulteriore mail con l’elenco delle cose che ci avrebbe fatto piacere trovare, a questa non è seguita poi alcuna successiva risposta. Attimi di imbarazzo, di sguardi che volavano dall’ambasciatore ai suoi giovani accompagnatori, per concludersi con un laconico scarica barile dove la colpa ovviamente è della segretaria, per altro assente in quel momento, rea di essersi dimenticata di informarlo. Salutiamo e ce ne andiamo, contenti di aver finalmente capito come mai l’ambasciatore italiano ha ignorato 14 italiani che sono arrivati in questo posto non proprio dietro l’angolo.

Esiste un centro che si chiama piccola Mthunzi, per arrivarci si percorrono strade polverose in un labirinto di piccole costruzioni, ci sono una trentina di bambini che non hanno potuto accedere alla Scuola per diverse ragioni: perché le famiglie non hanno i soldi per i libri o per comperare la divisa e le scarpe, cose indispensabili in Zambia, allora vanno in questo centro dove degli educatori si occupano di loro cercando di garantire un’istruzione e una vita sociale. Chiediamo come funziona il centro, ci dicono che i bambini vengono al mattino e stanno fino al pomeriggio, quindi fanno il pranzo sul posto chiediamo. Segue un silenzio imbarazzante, il pranzo non c’è, mangiamo a sera quando tornano nelle proprie case, non c’è perché non ci sono le possibilità di offrirlo né le famiglie possono farsi carico di questo. E’ dura ascoltare queste parole ed avere davanti i volti di trenta bambini che ti guardano e sorridono, gli hanno detto che facciamo uno spettacolo e questo si aspettano. Ci dividiamo, un gruppo comincia a fare dei numeri e dell’animazione, un altro raggiunge sulla strada una pompa di benzina con annesso market, carica pane, biscotti e bevande, li porta al centro e dopo lo spettacolo, almeno per oggi, si mangia.

Terminato il programma degli spettacoli che era stato predisposto, alla fine saranno sedici, abbiamo affittato un pulmino per andare a Livingstone e vedere quella che è considerata una delle meraviglie del mondo: le cascate Vittoria. Ci fanno presente che causa siccità le cascate potrebbero non esserci pur restando lo scenario del sito certamente meritevole. Decidiamo di andare comunque. Livingstone è a circa 400 Km da Lusaka, per arrivarci c’è una strada a due corsie miracolosamente senza buche, dove si paga un pedaggio minimo anche se non è un’autostrada, tempo di percorrenza circa otto ore. Non c’è un casello d’entrata, ogni tanto arriva una barriera e si pagano 40 K, circa un euro e mezzo, un po’ come in Francia dove i pagamenti sono periodici. Lungo la strada fioriscono attività di ogni genere ma le rivendite di carbone sono quelle che vanno per a maggiore. Fuori dalla città le piccole baracche in muratura lasciano pian piano spazio alle capanne fatte di terra e con i tetti a foglie di palma, sono piccoli agglomerati abitati, con bambini che corrono e capre al pascolo, dove domina un colore marrone che sembra inglobare ogni cosa: marrone la terra, le case, i tetti, le persone, gli animali. Per due anni siamo stati con Teatri Senza Frontiere in una zona rurale del Ghana, ai confini con il Togo, e abbiamo potuto vedere da vicino i villaggi di capanne e la vita che contenevano, sono percezioni molto diverse del concetto di miseria, in questo caso si è di fronte ad una vita quasi preistorica: senza luce, acqua corrente, uomini e animali che dormono nello stesso spazio, pochi attrezzi da lavoro, poche cose ma non c’è disperazione, quella che invece si tocca con mano sotto al ponte della ferrovia di Lusaka o in altri contesti tipici delle grandi città africane.

La strada che porta a Livingstone è percorsa da tanti bilici a piano di carico aperto, sembrano vuoti, invece trasportano grandi fogli di rame estratti dalle miniere vicino Ndola, a nord di Lusaka, ai confini con la Repubblica Democratica del Congo. Il rame pesa molto e quei lunghi camion portano il massimo del peso che è loro consentito, vanno in Sudafrica, trafiggono lo Zimbabwe e puntano verso il mare, perché sia lo Zambia che lo Zimbabwe non hanno sbocchi sul mare. Questa coda di mezzi, che poi abbiamo ritrovato al confine, porta all’imbarco il prezioso minerale e ancora una volta la domanda sorge spontanea, i soldi di questo traffico dove vanno? Cosa rimane nel Paese? Certamente qualcuno si arricchirà e anche molto, la corruzione ci mette del suo ma una cosa è certa, allo Zambia resta poco o niente.

Livingstone è una cittadina che vive del poco turismo che questa Nazione riesce a catturare e per quelli che arrivano le cascate Vittoria, come il giro sul fiume Zambesi, sono una tappa imperdibile. Si vedono in giro strade aggiustate in un contesto decisamente più curato rispetto a quello della capitale, anche quaggiù comunque, alle sei del pomeriggio, arriva il buio e non si vede più nulla. La struttura che ci ospita, gestita da italiani che non abbiamo mai incontrato, ha il suo bravo generatore che viene acceso dalle cinque del pomeriggio fino alle dieci della sera, poi stop.

Il giro sul fiume Zambesi ci regala incontri con ippopotami e una varietà infinita di uccelli, persino con un coccodrillo, facendoci apprezzare l’organizzazione che è stata messa in piedi per accogliere i turisti. Le barche sono confortevoli e c’è un bar a disposizione con tanto di barman che serve bibite finalmente fredde e a volontà, non si paga nulla, tutto compreso nel biglietto d’ingresso.

Le cascate Vittoria, come annunciato, sono senza acqua, o più correttamente con pochissima di questa, ogni tanto qualche ruscelletto scende ma nulla in confronto a quello che raccontano le fotografie che sono esposte un po’ ovunque e che, si capisce, costituiscono una sorta di vanto nazionale. Il fronte di caduta è immenso, impressiona anche senza l’acqua e una via pedonale permette di ammirarlo in tutta la sua estensione. Nella parte terminale esiste una zona in cui invece l’acqua cade ed anche in abbondanza, producendo persino la tipica nebbia di vapori dovuta all’impatto con le rocce, il problema è che quel pezzo sta nel territorio dello Zimbabwe e per vederlo bisogna passare il confine. Decidiamo di andare. Verso mezzogiorno, sotto un sole implacabile, partiamo, decisi a valicare per godere almeno di quel pezzo di cascata. Dopo circa 5 Km di cammino accanto ad una fila interminabile di quei TIR carichi di rame che avevamo già incrociato sulla strada, con annessi banchetti ristoro e immancabili mercatini, arriviamo alla dogana. Ci chiedono 80 dollari cadauno, salutiamo le cascate e lo Zimbabwe e ce ne torniamo da dove eravamo arrivati.

Curiosità N° 1. Nei mercati di Lusaka esiste un mezzo di trasporto decisamente particolare, un incrocio tra una carriola e un’ape car, in realtà si tratta di una carriola modificata e adattata allo scopo. Non le avevamo viste da nessun altra parte del mondo, solo a Scutari, in Albania, i Rom avevano una cosa simile, scorrazzavano per la città con un’ape car a motore, anche questa modificata, dove caricavano di tutto, dalle persone ai materiali ed avevano propri carrozzieri che provvedevano alle trasformazioni. La carriola zambiana è più modesta, non ha motore e funziona con la forza delle braccia, la ruota di gomma, derivata da una vecchia automobile, serve a sorreggere il peso del carico e le prolunghe per poter trasportare quanta più roba possibile. I mercati di Lusaka sono pieni di queste ingegnose invenzioni e trasportano ogni genere di mercanzia.

Curiosità N° 2. Siamo andati a fare spettacolo in un centro che accoglie bambini/e e ragazzi/e orfani e vulnerabili e che al suo interno ha anche una scuola, con nostra grande meraviglia quel centro si chiama MADRI SENZA FRONTIERE, ed è sostenuto da varie associazioni americane.

SALUTIAMO L’AFRICA che per venti giorni ci ha ospitato e fatto conoscere le sue bellezze e i suoi sorrisi. C’è un immagine finale, quasi riassuntiva che voglio riportare. A Livingstone, sulla strada principale, passa un ragazzo con una bicicletta/carretto che vende ghiaccioli, il mezzo ha due ruote davanti con sopra un cassonetto di polistirolo dove i gelati vengono mantenuti al freddo, o quasi, dietro c’è la sella e sotto una sola ruota, il tutto molto simile ai carrettini dei gelatai che da noi si vedevano alle feste di paese negli anni cinquanta/sessanta. La ruota di dietro è bloccata, la catena si è sganciata incastrando il sistema dei pedali, il ragazzo però spinge ugualmente, a fatica, e sempre col sorriso in faccia, cerca comunque di mandare avanti la sua unica fonte di sostentamento. Avrebbe potuto fermarsi in un punto della via e cercare di vendere lì i suoi gelati, ma non lo ha fatto, va comunque avanti perché sa che più si muove e più aumenta la possibilità di smerciare il prodotto. Spinge quel benedetto carretto lasciando che la ruota strisci sull’asfalto producendo un suono sordo e sgradevole, per il momento và così, poi a sera, con la calma ed il buio, si cercherà di trovare un rimedio e sbrogliare l’intreccio. La sua Africa procede alla stessa maniera, con le ruote bloccate, alcune da secoli oramai (schiavismo, colonialismo), altre più recenti (corruzione, sfruttamento delle risorse) ma va sempre e comunque avanti, perché gli africani la spingono, ogni giorno, ogni notte, col sorriso di chi non ha nulla ma ama la vita.

Marco Renzi

Foto di Ruggero Ratti e Sorina Simona Furdui