Gabriele ti ho conosciuto spiando dalla fessura di una porta di un aula. Era il 1988, era la Scuola del Piccolo Teatro di Milano frequentavo il terzo anno attori, e tu, giovanissimo, eri già un Maestro, un regista amato e apprezzato e parlavi ad un gruppo di allievi che sognavano di diventare come te. C’ era tanto silenzio e ascolto attorno alle tue parole che risuonavano in quell’ aula come fossero messaggi ancestrali dettati da un tempo pregno di sostanza.Ogni parola era un presagio, una scia luminosa che accarezzava la mente e scuoteva l’ anima. Quali sono i tuoi ricordi?
La prima volta che ho insegnato alla Paolo Grassi, che allora, hai ragione, si chiamava ancora Scuola del Piccolo, avevo pochi anni più degli allievi. Mauricio Paroni mi ha detto una volta: arrivavi alla scuola con una fama di cerbero, quando ti abbiamo visto entrare in aula abbiamo capito subito che eri tu ad avere paura di noi. Era vero. Io non avevo fatto una scuola di teatro “ufficiale”, non avevo una formazione teatrale classica, e trovarmi ad insegnare di fianco a maestri come Tadeusz Kantor o Heiner Muller mi metteva una certa ansia. Ma quella era la scuola diretta da Renato Palazzi, che voleva artisti di tradizione accanto all’avanguardia, cercava il confronto, soprattutto tra le generazioni. Quello che mi ricordo era andare a pranzo, nella pausa, con Leo De Berardinis, o trovarci tutte le mattine a fare colazione al bar Novecento con Thierry Salmon. Era un “ambiente culturale” che produceva idee e pratiche grazie allo scambio. Sono stato molto fortunato a vivere quel tempo.
Nel 1982 fondi il Teatro Settimo che in brevissimo tempo diviene una delle più interessanti realtà del teatro italiano. Con Esercizi sulla tavola di Mendeleev nel 1984 e con Elementi di struttura del sentimento nel 1985 vinci importanti premi e riconoscimenti, segnando il ritorno della narrazione a teatro. Sei stato uno dei creatori del Teatro di narrazione e nel 1996 hai ricevuto il Premio per la Regia dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro.Quanto è ancora attuale e necessario il narrare? a chi?
Narrazione è una parola che, partendo dal teatro, negli ultimi decenni è entrata nel lessico comune. “Narrazione” oggi vuol dire il contrario del suo significato reale (come molte altre parole). Quando qualcuno la pronuncia, di solito, intende la realtà che, per esempio, un politico, si costruisce a proprio uso e consumo. Quindi si parla molto di narrazione perché se ne fa pochissima. La narrazione è una componente fondamentale della realtà, ma per non cadere nella contraffazione bisogna prendersi tempo. La narrazione è questo: fabbricare tempo. Comprendere come senza passato è impossibile vivere il presente e immaginare un futuro. Spesso usiamo la parola “attuale” come sinonimo di “contemporaneo”. La narrazione non è mai attuale ma, ovviamente, è sempre contemporanea perché ci permette di stare con il tempo. Chi ha bisogno di narrazione oggi? Tutti, ma soprattutto politici e giornalisti, principali fabbricanti di realtà che, senza vera narrazione vera, non sono neanche realtà. Loro dovrebbero essere i principali soggetti a cui rivolgere le narrazioni.
Nel 2002, dopo vent’anni, il Teatro Settimo viene acquisito dal Teatro Stabile di Torino e tu ne diventi il regista stabile. Tra il 2006 e il 2007 dirigi grandi eventi come la Cerimonia Inaugurale delle Olimpiadi invernali di Torino. Dal 2008 lavori alla fondazione del Teatro Regionale Alessandrino di cui sei direttore artistico. Alla fine degli anni 2000 l’interesse di Vacis si rivolge al cinema e all’intreccio dei linguaggi a scopo pedagogico. Il docufilm Uno scampolo di paradiso vince il Premio della Giuria al Festival di Annecy. Dal 2008 dirigi il progetto TAM (Teatro e Arti Multimediali) con il Palestinian National Theatre a Gerusalemme e il progetto La paura Sicura che coniuga teatro, cinema e nuovi media.Quanta strada, quante avventure e quanto successo! Ora parli ad un altro gruppo di 16 giovani. Cosa è cambiato da allora?
Non credo ci sia un “allora” e un “ora”. C’è una continuità temporale che ci porta da un’esperienza all’altra. Per me, per esempio, è importante insegnare perché il contatto con il succedersi delle generazioni mi aiuta ad abitare il mutamento continuo della realtà, quella concreta, fatta di corpi e di relazioni. Infatti da quando ho cominciato, nel 1987, ad oggi, non ho mai smesso veramente. All’inizio ero il fratello maggiore degli allievi, poi hanno avuto l’età di mia figlia. Adesso potrei essere il nonno dei ragazzi di PEM. Osservarli mi ha sempre orientato nelle scelte che ho fatto. Molti rilevano in queste scelte una varietà eccessiva, una incostanza totale. Forse hanno ragione. Per esempio chiudere il Teatro Settimo è sicuramente stato un grosso errore. Pensa che bello se tante esperienze che sono partite da quel gruppo ci si fossero potute sviluppare all’interno, per esempio mi piace sognare che oggi PEM potrebbe avere a disposizione tutto l’ambiente culturale che si sarebbe sviluppato. Per contro, anche l’idea di avere ricominciato da capo, come quando il Teatro Settimo è nato, mi da molta forza.
Dal Piccolo Teatro alla Piccola Spoleto di Cadegliano. Ti vidi con “I sette a Tebe” sul palco del Piccolo, poi anni dopo ti invitai a venire al mio Festival a Cadegliano, un piccolo paese di confine sul lago di Lugano e fu un re-incontro meraviglioso. Ero emozionata e felice di averti nella mia casa. Allestimmo un piccolo palco nel giardino e la sera il pubblico accorso da tutta la provincia rimase incantato dalle tue parole. Poi restammo a parlare tutta la notte, era impossibile dormire… bisognava meditare, parlare, guardarsi negli occhi e condividere quegli attimi di bellezza.
Facciamo un lavoro meraviglioso, in potenza. E quello che lo rende meraviglioso sono le relazioni. Andare a fare uno spettacolo in un luogo significa scoprire spazio, è essere invitati a casa di qualcuno che non conosci e con cui svilupperai magari amicizie e collaborazioni. Alla fine degli anni ottanta abbiamo fatto uno spettacolo che si intitolava “Stabat Mater”, si faceva nelle case. Non ne potevamo più di tutto quello che era convenzione teatrale. Invece di chiamare il pubblico a teatro eravamo chiamati dal pubblico a casa loro. Quella fu un’esperienza di incontro che informo molte delle nostre pratiche successive. Forse, per esempio, è in quelle serate che è nato veramente il teatro di narrazione. Di sicuro quello che mi ha sempre entusiasmato è comprendere la lezione dei maestri del novecento: il teatro oltre lo spettacolo. Oggi più che mai è chiaro che il teatro non può essere solo intrattenimento. E se non è intrattenimento è relazione, incontro, condivisione.
Poi hai ideato La Schiera, una tecnica di formazione e allenamento dell’attore fondata sull’ascolto. Come viene praticata?
Il teatro si prende cura della persona da sempre. La tragedia, nella Grecia classica, era il luogo dell’incontro della comunità. Attraverso la catarsi ci si purificava dalle passioni per guardare razionalmente alla soluzione dei conflitti, alle possibilità di convivenza. Le pratiche del teatro hanno sempre supportato la socialità, la salute, l’educazione. Noi che viviamo nel consumismo abbiamo dimenticato tutto questo. Quindi ricominciamo da capo, da una delle azioni primigenie: camminare, ricominciamo dal guardare e dall’ascoltare. Tutti invocano continuamente l’ascolto. Ma come si fa ad ascoltare? La Schiera, negli ultimi decenni, ha messo a punto una serie di pratiche ed esercizi che riconoscono le tensioni muscolari reali, ristabilendone l’equilibrio. Comprendiamo come e perché camminiamo attraverso la Schiera: quanti e quali muscoli utilizziamo quando camminiamo? Sono tutti necessari? Quando e come creiamo libertà e quando e come produciamo tensione? La Schiera serve a rispondere a queste domande. Ma serve anche a camminare insieme, a fare i conti con gli altri. Serve a stare in attenzione, ad essere presenti a sé stessi, al tempo, allo spazio. Ad essere autori della propria presenza in scena e non solo. La Schiera si rivolge ad attori, cantanti, danzatori, animatori, lavoratori del settore culturale, dell’educazione e della formazione, professionisti del settore sanitario e tutti coloro che lavorano con gruppi di persone o vogliono servirsi di pratiche teatrali anche al di fuori dell’ambito artistico.
(link video sulla Schiera:https://vimeo.com/393277275)
Quella sera a Locarno, ho visto la vostra Antigone! Era il 22 novembre 2023. Vi ho udito, vi ho sentito e immersa nel senso profondo di Comunità, anch’ io ero un’ unghia di un corpo bello vivo che irradia luce. COMUNITA’! Una parola, un concetto, un paesaggio, un sentimento, una necessità, un luogo…gli hai sempre attribuito un grande significato, vero?
La signora Thatcher diceva che non esiste la società, esistono solo uomini, donne, famiglie. Io sono nato e cresciuto in una periferia in cui tutto sembrava costruito per questo: sopprimere la società. Solo che così non esistono neanche più le donne e gli uomini, e le famiglie diventano simulacri. Il teatro è uno dei mezzi per costruire società, comunità, soprattutto di questi tempi, in cui sembra che le relazioni debbano passare solo attraverso le tecnologie. A me piacciono molto gli strumenti tecnologici di cui disponiamo, ne faccio grande uso. Ma niente può sostituire il rapporto “sociale” che crea il teatro. Non ricordo quando con Antonia, con Laura, Lucio, Adriana, Mariella, Mario, Roberto, Federico e tutti gli altri fondatori del Laboratorio Teatro Settimo ci siamo fatti la promessa: la cambiamo noi questa città desolata in cui viviamo, e già che ci siamo anche il resto del mondo! Eravamo giovani e molto presuntuosi. Però ce lo siamo promessi e per me ogni promessa è debito.
Quella sera a Locarno, Antigone, tra le parole di Sofocle, ha pronunciato le parole di Elena Cecchettin che finiscono cosi: per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto. Mi viene da dire: la parità di genere attraverso il mito greco?
La mia generazione ha vissuto l’affermazione della parità di genere con molto entusiasmo e anche con parecchi drammi. Oggi le ragazze hanno possibilità che gli sono state consegnate dalle donne che adesso hanno la mia età. Ma la cosa bellissima è che le ragazze di oggi quell’eredità la stanno prendendo molto sul serio. Talmente sul serio che la stanno spingendo, giustamente, molto oltre: alle radici del patriarcato. E le radici del patriarcato sono molto profonde, per questo molti maschi possono accettare di dirsi maschilisti ma non accettano il patriarcato. Perchè il maschilismo è una sclta e si può rifiutare. Il patriarcato è una condizione, quindi richiede una revisione profonda di sé stessi (e anche di voi stesse). Ripartire dalle origini di un dio che rapisce e stupra la ragazza che si chiama Europa può essere molto utile ad affrontare una questione che dovrebbe occupare tutto il nostro tempo.
7) Chi è Pem?
PEM vuol dire Potenziali Evocati Multimediali, è una impresa sociale nata a dicembre 2021 dalla classe della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino, che io dirigevo. Alla fine del corso hanno chiesto a Roberto Tarasco e a me di unirsi al gruppo. PEM si occupa di Spettacolo, Arte, Pedagogia e Cura. Tramite spettacoli, laboratori, seminari e performance, PEM diffonde la formazione teatrale, favorisce l’inclusione sociale, e promuove il teatro oltre lo spettacolo, nella convinzione che le pratiche teatrali non siano soltanto un esercizio finalizzato alla restituzione scenica ma possano favorire l’interazione fra individui, poiché si fondano sulla consapevolezza di sé, degli altri, del tempo e dello spazio. Al cuore di questa tesi vi è la convinzione provata che il teatro sia un’arte che produce la relazione viva tra gli umani, grazie alla prerogativa che gli è propria, richiedere la compresenza fra individui. PEM propone perciò un teatro aperto, la cui estetica è ritenuta fondativa di una esperienza teatrale che stabilisca l’interazione e la relazione; si viene così a creare necessariamente uno spazio accessibile alle persone, partecipativo e inclusivo, che nutre la comunità e la società di cui è parte.
a cura di Silvia Priori