Oggi incontriamo Stefano Cipiciani, Presidente e Direttore Artistico di Fontemaggiore a Perugia, compagnia storica del Teatro Italiano. Dopo 44 anni ininterrotti di attività, Stefano ha deciso che è venuto il tempo di passare la mano e lasciare spazio ai giovani che hanno lavorato con lui in questi anni, gli stessi che dovranno prendere il testimone e disegnare il futuro di questa straordinaria compagnia che ha scritto pagine importanti e significative del nostro Teatro. La prima cosa che gli chiediamo è di raccontarci com’è iniziata la sua avventura.
Erano gli anni ‘70, ricordati solo come gli anni di piombo, per me erano gli anni delle discussioni, della creatività e della socializzazione. Tutto è cominciato con un laboratorio che Fontemaggiore aveva organizzato a Perugia, promosso da Giampiero Frondini, mi sono iscritto e pian piano ho capito che tra me e il Teatro c’era qualcosa che richiedeva di essere approfondito. A quel tempo ero iscritto alla facoltà di geologia presso l’Università di Perugia, piantai tutto, sentivo il terreno muoversi sotto i piedi e dovevo capirne le cause. Ho cominciato come macchinista, sia al Teatro Morlacchi che a Fontemaggiore, per tre anni ho montato e smontato scene, osservato la poesia delle luci, degli oggetti, dello spazio scenico. Nel 1980 capitò l’occasione di fare il “salto di specie”, Frondini cercava giovani per un suo evento, lo spettacolo sulla storia del Guerrin Meschino, andai e provai il lavoro sul palcoscenico, riuscendo ad avere una visuale più completa dell’evento teatrale, sicuramente diversa da quella che avevo avuto fino a quel momento. E’ stato così che ho cominciato a lavorare stabilmente con Fontemaggiore, facevo di tutto, non solo montavo e smontavo le scene, che per inciso non erano due valige e una sedia, Giampiero amava le scenografie che disegnava. Non mi limitavo a fare il macchinista, costruivo anche le scenografie, e contemporaneamente sperimentavo quella cosa misteriosa che era recitare davanti ad un pubblico. Nel tempo ho capito che il Teatro mi piaceva nella sua complessità, tutto intero, era un habitat che si confaceva al mio carattere: recitavo, progettavo, costruivo, puntavo luci, cercavo i colori. In seguito ho preso confidenza anche con il lavoro organizzativo, altrettanto complesso e all’inizio difficile da capire, ero onnivoro, divoravo Teatro a 360°, andavo a vedere le regie di Peter Brook, gli spettacoli di Baliani, di Leo De Berardinis, Barba e Bene, accumulavo stimoli, visioni, possibilità e tutto questo si mischiava con la grande passione che Giampiero mi trasmetteva quotidianamente, mio vero maestro. Nel 2002, quando lui ha deciso che era tempo di fare quello che oggi sto facendo io stesso, vale a dire passare la mano agli altri, ho assunto la presidenza della compagnia e poi la direzione artistica.
Quali sono le cose che ricordi con maggior intensità di questo quasi mezzo secolo di Teatro?
Sicuramente gli spettacoli del Guerrin Meschino e in particolare la touneè che facemmo in Germania, era la prima volta che andavo all’estero, vedere come il pubblico tedesco veniva preso dall’evento era straordinario, eravamo un gruppo di circa 20 persone e lo spettacolo era davvero potente. Un altro momento importante è stato sicuramente il “Premio Scenario”, l’ho seguito sin dal suo nascere, nel 1987, incontrare ogni anno 40/50 gruppi di giovani è stata una Scuola unica, una palestra straordinaria di stimoli, vedere poetiche così diverse, modi di fare, soluzioni, idee è stato davvero stimolante e lo è tutt’ora. L’ultimo pensiero è legato allo spettacolo “Ricordi con Guerra”, un lavoro che mi sono cucito addosso: per la prima volta ho raccontato una storia mia, per la prima volta solo sul palco: è stato un bel momento . Il Teatro mi ha dato tante opportunità, mi ha permesso di conoscere persone che hanno influito sulla mia vita, instaurare rapporti, crescere, leggere il mondo e camminarci dentro.
Qual’è stata la cosa migliore che hai fatto in questi venti anni di direzione artistica di Fontemaggiore.
Ho lavorato molto sui rapporti con il territorio, cercando di creare e successivamente stabilizzare delle reti, dei circuiti, ho parlato tanto con le Amministrazioni Pubbliche, ho tessuto pazientemente e con determinazione una tela di relazioni che ponesse il Centro come referente culturale nel suo territorio di residenza. Credo che questo sia un bel patrimonio da lasciare a chi mi succederà, una pianta che bisognerà continuare a curare ma che da già i suoi frutti.
E adesso hai deciso di smettere.
Esattamente e senza rimorsi, ho passato 44 anni della mia vita con il Teatro, è stato molto bello, lo rifarei senza ombra di dubbio, ma sento che è venuto il tempo per altri, così come è accaduto a me venti anni fa, in fondo è il solito cerchio della vita, nulla di nuovo sotto la luce del sole.
Non temi il distacco dopo così tanto tempo?
Sono sereno, la vita è piena di cose da fare, il mio non è un addio al Teatro, ma un punto sul lavoro quotidiano. Continuerò a seguire il Teatro e lo farò da spettatore attento e curioso, chiudendo il cerchio attorno a questo mestiere antico come l’uomo. Mi mancava il punto di vista dello spettatore, lo avevo provato molte altre volte, certo, ma sempre con la testa dentro quel mestiere, adesso voglio essere spettatore nel senso più pieno della parola. La scelta che ho fatto è maturata nel tempo e oggi la sento giusta, equilibrata, nel corso delle cose. Non si tratta solo di lasciare spazio ai giovani, cosa sacrosanta, ma di accogliere nuovi punti di vista, nuove idee che possono e debbono trovare il loro spazio. C’è un tempo per pensare, uno per seminare e un altro per raccogliere, il mio percorso mi ha permesso di fare tutte queste cose, adesso è il tempo dell’avvicendamento, del farsi di lato e guardare con soddisfazione l’albero che cresce e continua dare i suoi frutti, sono certo che chi mi succederà saprà garantire tutto questo.
Cosa senti di dire a tutti quelli che restano sul campo.
Di stare sempre sul pezzo, con la testa, l’anima e il corpo, ragionare molto, ponderare le decisioni, il nostro è un mestiere molto complesso, richiede tanto tempo, tanta applicazione, passione, energia, lavoro. In teatro le cose si imparano facendole, l’esperienza è fondamentale, quello che so l’ho imparato sbagliando e sarà ancora così, sempre. Sbagliare per imparare, evitare il tracollo, l’errore ponderato, con la consapevolezza che si impara di più da un errore che dalle cose giuste che si fanno.
Come vedi il Teatro Ragazzi oggi, com’è cambiato e dove sta andando secondo te. Perché continua ad essere sempre l’ultima ruota del carro?
La Cultura nel nostro Paese vive momenti difficili e non solo per la pandemia. Un docente universitario è unanimemente considerato più importante di un’ insegnante di Scuola dell’Infanzia, lo stipendio percepito e il peso sociale testimonia quanto affermo. Così il Teatro Ragazzi è meno considerato anche se noi siamo fermamente convinti del suo alto valore, e per questo significato che noi gli attribuiamo dobbiamo continuare a lavorare con determinazione e grande professionalità perchè per noi è chiaro che il Bambino non è un “consumatore”. Lavorare con lo streaming ci ha confusi e distratti, dobbiamo difendere con fermezza lo spettacolo dal vivo, far capire cosa significa e quali implicazioni porta con se uno spettacolo per i bambini e gli adolescenti. La nostra generazione ha fatto il suo, oggi il Teatro ragazzi è riconosciuto, il MIC lo contempla, i Comuni si sono aperti ad una programmazione in tal senso, bisogna continuare e mai abbassare la guardia. Per 44 anni ho fatto questo mestiere, ci ho creduto e il solo fatto di aver resistito è per me un successo, adesso tocca alla nuova generazione , alla quale auguro traguardi e obiettivi più ambiziosi dei nostri.
Cosa farai dopo il 31 dicembre?
Continuerà a costruire i miei “bucciottini”, una sorta di soldatini che non vendo a nessuno e che realizzo con quello che trovo, leggerò, come ho sempre fatto, farò il nonno e starò molto in giro con la bicicletta. Non ho paura di questo passaggio, lo sento come qualcosa di molto naturale.
intervista a cura di Marco Renzi