SARAJEVO – CAMPO PROFUGHI DI USIVAK
3-10 OTTOBRE 2021
IL DIARIO DI MAURIZIO STAMMATI
E LE RIFLESSIONI DI MARCO RENZI
il diario di Maurizio Stammati
C’è un’intera umanità in perenne movimento che la mattina non ha un bar dove andare sempre a fare colazione, per un caffè. Non ha una scuola dove portare i figli, un ufficio, un cantiere, un treno che lo accompagni al lavoro. C’è una intera umanità fatta di donne, uomini, ragazze, ragazzi, bambine, bambini, mani, occhi , capelli, piedi, proprio uguali a noi insomma, che non hanno tutto questo perché qualcun altro ha deciso che la loro città, la loro scuola non è più la loro e da lì li hanno cacciati, bombardati, maltrattati, torturati o semplicemente spaventati, e da lì sono andati via con le buste, le borse, le valigie trasformate in case e le scarpe trasformate in strade, sentieri, confini da oltrepassare. Un pezzetto di questa umanità abbiamo incontrato a Sarajevo, in uno dei vari campi profughi dove vengono accolti per poter riposare, rifocillarsi e riprendere la fuga verso un altrove che non è ben definito.
Entrare in un luogo così è come svegliarsi nel sogno di un altro, non sai bene chi hai davanti, perché si trova lì e cosa pensa di te, visto che non scappi da nessuno e una casa e un bar ce l’hai .
Ma il teatro è meraviglioso, perché mi ha insegnato ad aspettare, ad aspettare di entrare, ad aspettare la battuta per parlare, aspettare di suonare e di cantare, mi ha insegnato ad ascoltare. E così dopo un mattino trascorso tra un thé e un ping pong, una partita a carte e una risata, ecco che parte una parata piccola piccola, un Tamburo un organetto e un pazzeriello marchigiano e il campo si trasforma, si sveglia da quel sogno e allora tutti sgorgano sorrisi, tutti vogliono battere le mani, tutti vogliono tammurriata tarantella e Bella Ciao, Lì al campo, Afgani, Siriani, Iracheni, Curdi la conoscono tutti , è un po anche la loro. E così il primo carico di sorrisi, pacche sulle spalle, girotondi e nasi rossi è fatto. Domani ….domani è un altro sogno e sì vedrà!! (Martedì 5 Ottobre)
Come il pitone cambia pelle anche il campo cambia, muta, non è mai uguale. Oggi non c’è il sole, l’autunno annuncia il suo tardivo arrivo con freddo e pioggia, tutti sono più nuvolosi, ma c’è una cosa che non cambia al campo, sono le scarpe. Ieri con il sole sembrava di stare in un campeggio, oggi no, vedere in molti restare con le infradito faceva male, sopratutto se erano bambini.
Oggi laboratorio burattini, in pochissimi arrivano, ma basta prendere il tamburo e, come i veri banditori, nel mio inglese incomprensibilmente comprensibile, come pesci in un acquario corrono i bambini, la giornata si prospetta ricca di avventure. Carta cartone, nastro, un po’ di stoffa ed è fatta, tutti a metterci le mani a fare nasi, orecchie, bellissime le bambine dai nomi impronunciabili, distinte, eleganti, principesse di terre lontane fuggite da draghi e stregoni malefici, i loro sono burattini con il velo sul capo o con la bandana sulla bocca. Piove, piove duro e il campo cambia, cambia ancora, sotto una tettoia con legna di recupero si accende un fuoco, una radio canta afghano e i giovani partono a danzare, una di loro indossa un abito realizzato dalla sartoria del campo e d’un tratto siamo tornati a casa loro, il ritmo delle mani si fa forte, la tettoia si affolla, ci si abbraccia. Ma la pioggia non abbassa la sua forza, i bambini sembrano non accorgersene e sguazzano tra pozzanghere e grondaie. All’uscita incrociamo una lunga fila di dolore, come un rosario fatto di persone, famiglie intere al cancello allineate che aspettano di entrare, per loro sembra non esserci la pioggia, non c’è freddo, solo dolore nelle mani che portano il passato e negli occhi che non vedono futuro. Se il campo è come un grande pitone, ingoia ogni cosa, noi, loro, tutti… (Mercoledì 6 Ottobre)
“The Game” è il nome che viene dato dai migranti, qui in Bosnia, al tentativo di attraversamento di una frontiera. Come succede nella maggior parte dei casi, i “giocatori in fuga” vengono individuati, a volte spogliati dei propri diritti di esseri umani e rimandati indietro al punto di partenza. Quando ho intuito che qualcuno al campo si stava preparando al Game, mi si è stretto il cuore. C’è chi, qui al campo, lo ha provato 3/5/10 volte e non è passato. Ci sono famiglie che sono qui da 2/3/4 anni e ancora non riescono a vincerlo “sto Game”. Vengono portati, da chi prende loro i pochi soldi che hanno sù tra i boschi e provano a passare il confine…il più delle volte vengono intercettati e rispediti indietro. Ecco The Game …il gioco che non è un gioco. Oggi invece un gioco vero lo abbiamo portato al campo, IL TEATRO, piove tanto, la mattina non siamo andati, eravamo in una scuola a fare lo spettacolo ma appena il nostro pulmino ha passato i controlli all’ingresso del campo, un piccolo corteo festante ci ha seguito per annunciare il nostro arrivo. Sono solo tre giorni ma siamo già parte di loro. Sotto una tettoia, in poco tempo, con fuori che gronda acqua e freddo, montiamo baracca e burattini, un po’ di sedie ed è subito magia, occhi che si accendono, mani che sbattono, risate che si rincorrono. Ci sono tutte le età, dai piccolissimi agli adolescenti fino agli adulti, tutti i volti della terra, la voce si sparge in un attimo e il miracolo di un po’ di normalità accade …Pulcinella vince sempre, è come loro, un migrante secolare che tra la vita e la morte prova a superare tutto quello che gli tocca in sorte… proprio come loro. Un buffo cantastorie, gli racconta dell’Arca di Noè e i più grandi traducono in persiano per i più piccoli e siamo in un ovunque che è la storia del mondo, del racconto, si fa silenzio, i bambini si abbandonano all’ascolto…poi torna Pulcinella contro tutti e torna l’allegria. Al campo c’è gente che entra anche solo per un piatto caldo, per poi provare ” The Game” e intanto piove, piove duro ,come il freddo che inizia a pungere la pelle….chissà che questa notte, qualcuno di quei bimbi, pensando a Pulcinella, tra quei boschi bagnati, riesca a vincerlo il suo Game, riesca a farla una pernacchia alla paura, riesca a svegliarsi domani in un mondo normale, dove i bambini vanno a scuola e tra i boschi ci vanno a fare i funghi e le castagne, non a giocarsi la vita a testa e croce. A volte …
“…vuless’ arrubba’, senza me fa vede’, tutte e facce da gente…” (Pino Daniele)
(Giovedì 7 Ottobre)
“Un muro contro i migranti anche in Europa. L’esempio Trump fa scuola nell’Unione e così oggi, mentre prendeva il via a Lussemburgo il consiglio dei ministri degli Interni dell’Ue, 12 Paesi scrivono alla Commissione per chiedere esplicitamente nuove misure in questa materia, a partire dalla costruzione di un “Vallo” nei confini sudorientali dell’Europa. I dodici firmatari sono Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Slovacchia. Naturalmente ci si aggrega la Lega di Salvini” (cit. La Repubblica)
Al campo fa proprio freddo, oggi l’unico fuoco acceso è affollato di mamme, papà, bambini, le tute che hanno addosso e le infradito non riscaldano molto, i loro gesti per scaldarsi sono antichi, primordiali, una mamma mette una melanzana nella brace, un papà riscalda un po la busta del latte per la figlia .
Qui al campo c’è un prefabbricato rialzato dove la Caritas Italiana gestisce un piccolo centro ricreativo,dove noi siamo appoggiati. È un faro caldo e accogliente, con un ping pong, carte,scacchiere e tè caldo per tutti, ma tantissimo tè caldo, non dicono mai di no a nessuno ed è qui che facciamo l’ultimo nostro laboratorio. I bambini più piccoli ci lanciano bacetti quando passiamo, gli sguardi degli adulti sono sorridenti, abbiamo fatto troppo poco in troppo poco tempo, 2 spettacoli 2 laboratori una parata che resterà nel cuore di tutti. Domani ci aspetta l’orfanotrofio di Sarajevo.
Chissà che un giorno la parte sbagliata del muro non diventi l’altra, e a cercare di fare The Game, di passare attraverso i boschi freddi e bagnati, non siano i 12 paesi più Salvini …in fondo il mondo gira … (Venerdì 8 Ottobre)
Che cosa resta di questi giorni di vita, di sguardi, di piedi scalzi, tutine e pigiamini, che combattono il gelo che scende, la pioggia che batte e tutto quello che ci siamo raccontati, di questa onda di migranti, questo tzunami di uomini e di donne, che sono loro ma siamo anche noi, sono i nostri nonni, le nostre madri migranti, ai quali hanno rubato tutto, la casa, gli affetti, la dignità di esseri umani, spogliati, umiliati a volte calpestati … restano i sorrisi e la voglia di meravigliarsi di un naso rosso, di un burattino che sbatte la testa, di un pallone a forma di mondo palleggiato dalle mani di tutti i colori…
“Il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro ma il derubato che piange ruba qualcosa a se stesso, perciò io vi dico: finché sorriderò tu non sarai perduta. L’essenza della vita non sarà perduta se l’umanità sarà ancora capace di sorridere, affascinarsi, commuoversi, rubando qualcosa agli innumerevoli ladri di identità, diabolici dissimulatori della realtà”.
(Piepaolo Pasolini) (Sabato 9 Ottobre)
le riflessioni di Marco Renzi
Cari amici, è difficile raccontarvi questa settimana che abbiamo trascorso a Sarajevo, molto difficile. Tutto è complesso, a partire dal Paese dove siamo, nato da una guerra civile di cui ancora si possono vedere i segni sulle facciate di alcuni palazzi, come pure complesso è capire le ragioni che hanno portato a questo conflitto. Sappiamo che c’era una Serbia che voleva essere “grande” e sull’altare di queste ambizioni non ha esitato a sparare a ottomila uomini disarmati nella città di Sebrenica. Sappiamo delle epurazioni etniche, delle atrocità commesse e degli stupri, tutto è arrivato, come se provenisse da una terra lontana e selvaggia, mentre invece fioriva nel giardino del nostro vicino, lo stesso che ogni mattina ci salutava con garbo e maniera. Sarajevo è una città a mio parere splendida, è la terza volta che ci torno, circondata da verdi colline foderate di case che da lontano richiamano le favelas di San Paolo, ma, ad uno sguardo più attento, si svelano in abitazioni piccole e ben fatte. Città multiforme, punteggiata da un’infinità di minareti, tra i quali è possibile scorgere le forme della Cattedrale Ortodossa, di quella Cattolica e persino della Sinagoga. La “old town” è un dedalo di piccole vie dove si accavallano bar, ristoranti e botteghe di souvenir color del rame, pochi passi più in là, sule rive del fiume, è possibile vedere la ricostruita Biblioteca Nazionale, quella bombardata dall’esercito Serbo, responsabile di un incendio che ha bruciato oltre due milioni di libri tra cui settecentomila manoscritti. Quello che adesso si può ammirare è purtroppo solo la sbiadita copia dello splendore di un edificio arabo di fronte al quale si restava interdetti dalla bellezza.
Questa volta non sono venuto a Sarajevo per visitare la città, ma per rendermi conto di cosa fossero i campi profughi e per portare anche a questi ultimi della terra un sorriso, come da dodici anni facciamo con TEATRI SENZA FRONTIERE, oramai in tutto il mondo. Siamo sulla famosa rotta balcanica e la Bosnia Erzegovina è ben fornita di campi che qui chiamano di prima accoglienza, come fossero reception di campeggi. Attorno alla città ce ne sono tre, nel nord, verso Bhiac, ai confini con la Croazia, molti di più. Ho trascorso, insieme ai miei compagni di viaggio, poco meno di una settimana in uno di questo campi, quello di Usivak, 20 Km fuori città, ricavato da un vecchio insediamento dell’esercito di Tito, uno dei migliori, così almeno dicono gli operatori che ci lavorano, interamente dedicato ai nuclei familiari, mente in un altro vicino ci sono solo uomini e ragazzi maggiorenni arrivati da soli.
Capire una realtà complessa come questa in una settimana è cosa ardua, forse impossibile, mi limiterò a raccontare ciò che ho visto, nulla di più. Non sta a me individuare la soluzione di un problema così grande ed epocale, spetta ad altri, a quelli che per questo sono strapagati, sperando poi che non lo facciano alla maniera che ho letto oggi sulle pagine dei giornali italiani, erigendo ancora costosi muri di separazione, con la pretesa che a pagarli siano addirittura le casse dell’Unione Europea. Non c’è bisogno di strapagare persone per avere questo genere di soluzioni, come si può davanti ad un padre ed una madre che arrivano dopo giorni e giorni di cammino, con in braccio i loro figli, concepire un accoglienza fatta di filo spinato e cemento. Non mi interessa se sono tanti, se non abbiamo spazio sufficiente per tutti, se la gente ha paura, queste persone vanno accolte ed aiutate, punto. Il resto viene dopo, ma molto dopo, così dopo che quasi non conta più, ed è su quel dopo che dovete, voi che comandate, trovare soluzioni che rientrino nella categoria umana e non andarle a cercare altrove.
Il campo di Usivak è in un bosco, con un piccolo ruscello che riemerge proprio nel centro e che è stato imbrigliato dai vecchi militari che lo abitavano. All’arrivo c’è un check, si entra solo se in possesso di regolare autorizzazione, una volta superato siamo nel campo vero e proprio, ad accoglierci ci sono baracche in legno e metallo gestite dalle varie organizzazioni che operano nel campo, prima tra tutti quella delle Nazioni Unite e della UE, poi Unicef, Croce Rossa, Caritas e IPSIA/Acli. Il personale gira con addosso casacche dove sono ben stampati i loghi di appartenenza ed è rassicurante vederli, si capisce che si stanno adoperando per dare quanto possibile a chi arriva e a chi parte.
Il campo è qualcosa di indefinibile, ospita in questo periodo circa 400 persone, in maggioranza provenienti dall’Afghanistan, sono famiglie e molti bambini corrono di qua e di la, colorando di vita ogni cosa intorno. I nuclei sono ospitati nei container, moduli metallici di due metri per quattro, praticamene occupati dai soli letti. C’è una baracca più grande dove si mangia e a tutti è garantita una colazione, un pranzo ed una cena, quale sia la qualità e la quantità di questo cibo non ci è dato saperlo, le regole del campo sono rigide, nessun visitatore (quale noi siamo) può girare da solo e senza permesso, non è possibile fare fotografie né alle persone né alle cose. L’unico luogo dove ci possiamo muovere liberamente è quello del “Social Corner”, gestito dalla Caritas che ci ospita. E’ lo spazio sociale del campo, aperto dal lunedì al venerdì fino alle 16 del pomeriggio, voluto e finanziato da Papa Francesco, oltre questo non c’è altro. Nel “Social Corner” troviamo tanti tavoli con giochi diversi, un biliardino, un ping pong e due grandi bollitori che sfornano té in continuazione, bevanda che gli afghani, come gli altri, dimostrano di gradire in modo particolare. Si comincia al mattino e si va avanti fino alla chiusura, in una processione infinita di uomini, donne e bambini che girano con i bicchieri di carta fumante in mano. Al “Social Corner” ho conosciuto un uomo giovane che sta tentando di raggiungere la Francia, dove vive sua moglie, lui mangia con gli operatori della Caritas che si limitano a prendere in un supermercato relativamente vicino: pezzi di pollo, peperoni e cotolette, sostiene che quelle cose sono un miraggio per chi mangia alla mensa.
La vita del campo è sospesa in un limbo infinito e difficile da credersi, ogni tanto qualcuno parte per fare il “Game”, così chiamano in gergo il provare a passare il confine. L’obiettivo finale è raggiungere i Paesi dell’area Schengen e da lì ricongiungersi con parenti che vivono in Germania, Francia, Italia e via dicendo. Ci sono organizzazioni di farabutti che in cambio di soldi li portano vicino al confine croato da dove provano a passare: molti a piedi, altri nascosti nei camion. Alcuni, pochi in verità, ci riescono, gli altri vengono presi e riportati ai campi, si riposano, si riorganizzano e tentano ancora, per mesi, anni, perchè indietro non possono più tornare. Corrono voci su migranti picchiati dalla polizia sia Serba che Croata, derubati, umiliati più di quello che già sono, questi sono racconti che ho sentito e nulla di più. Al campo gente arriva e se ne va ogni giorno, tutti sono liberi di uscire e rientrare. Gli operatori parlano di famiglie che hanno lasciato tutto quello che avevano perché la situazione nel loro Paese si era fatta invivibile e se pensiamo all’avvento dei talebani non facciamo certo fatica a capire il fenomeno. Scappano, con i vestiti che hanno addosso, con pochi soldi ben cuciti nei pantaloni, portando per mano bambini anche molto piccoli: camminano, sperano, sognano un futuro, solo il caso che muove ogni cosa li ha fatti stare dalla parte bastarda del mondo, saremo potuti esserci noi, anche voi, e al loro posto avreste fatto la stessa identica cosa. Per quel che mi riguarda non ho dubbi, non avrei esitato un istante a prendere le mie figlie e partire pur di garantirgli una vita migliore, non credo si tratti di calcoli matematici ma di istinto di sopravvivenza che ci porta a mettere in salvo la nostra prole, sempre e comunque.
Fa freddo a Sarajevo, oggi, Sabato 9 Ottobre, la massima è arrivata a 6 gradi e la minima a 1, tra poco si vedrà la neve e nei campi non ci sono riscaldamenti centralizzati, ciascuno si procura coperte, stufette elettriche e così va avanti. C’è un braciere vicino allo spazio dove operiamo, quando verso le 9 del mattino arriviamo è già acceso e resta così fin quando ce ne andiamo, intorno c’è sempre gente, si scaldano finchè c’è legna, bevono té, parlano, ascoltano la musica della loro terra attraverso i telefonini, i bambini corrono e giocano, quasi tutti sono in ciabatte e a piedi nudi. Se qualcuno ha mai pensato che fossero in campeggio si è sbagliato di grosso, sono un popolo che nessuno vuole, che sopravvive con la forza della disperazione, che sa di non poter tornare indietro e che deve per fprza giocare al “game”, sperando prima o poi di avere fortuna.
In questo contesto difficile abbiamo portato un bene apparentemente superfluo, il Teatro, abbiamo visto fiorire sorrisi sui volti di tutti e dei bambini in particolare, non ci è permesso mostrarli, sarebbero eloquenti più di mille parole. Il Teatro ci ha abbracciato e reso, almeno per un’ora, un gruppo di essere umani. Certo è la goccia in un oceano di sofferenze, ma in quel mare così grande da oggi c’è anche la nostra piccola goccia, riusciamo persino a vederla in mezzo alle altre, è piccola ma ci riempie di felicità.
Ho visto tanti giovani di tutte le organizzazioni, in modo particolare quelli della Caritas che ci ha ospitato, si danno da fare, servono quintali di té, puliscono, pensano a come poter fare di meglio, sono loro la nostra speranza, muratori che stanno edificando qualcosa per gli altri e per loro stessi, per l’onorabilità della loro anima.
Riparto con questa speranza e con gli occhi dei tanti bambini mal vestiti e in ciabatte che ho incontrato, che Dio, a qualunque nome risponda, si prenda cura di loro e li protegga da ogni muro.
Un ringraziamento a quanti hanno sostenuto questo progetto: Comune di Montegiorgio, Comune di Montegranaro e Veregra Street Festival, Clown & Clown Festival di Monte San Giusto, Elettromedia di Potenza Picena, Osiride Coop Sociale di Formia, Coop Mosaico e Lazio Sette.
Maurizio Stammati, Marco Mastantuono, Ruggero Ratti.
Le foto sono di Martina Filosa.
Marco Renzi