FERRUCCIO MERISI, DI ARLECCHINO E ALTRE STORIE

Ferruccio Merisi è un vecchio giovane regista: prima regia nel 1977. Poi, ad oggi, oltre cento spettacoli firmati. Oltre la metà anche scritti da lui stesso. Ha studiato con Giorgio Strehler, Jerzy Grotovski ed Eugenio Barba. Di quella generazione è stato il primo a riconciliare sulla scena il gesto e la parola, senza perdere la fondamentale priorità del corpo. Nel 1990 ha fondato a Pordenone la “sua” Scuola Sperimentale dell’Attore, che pratica fino in fondo questa prospettiva. In questo ambito ha collaborato a lungo con Claudia Contin Arlecchino per una originale ricostruzione della Commedia dell’Arte, le cui regole strutturali è stato possibile applicare anche ad altre forme (con l’invenzione per esempio di una Tragedia dell’Arte), basate sulla capacità dell’attore di incarnare per i suoi personaggi body images disegnate con logiche figurative strettamente artistiche. Pur facendo regie di ogni genere in Italia e all’esteri, lavora di preferenza con attori formati alla Scuola Sperimentale. Lucia Zaghet è la decana della compagnia, e, come altri colleghi, oggi insegna anche nella stessa Scuola. Ferruccio Merisi, che dal 1980 all’84 è stato prima direttore organizzativo e poi direttore artistico del Festival di Santarcangelo, è anche un inventore di iniziative culturali nella sua città. La più importante è il festival “L’Arlecchino Errante- meeting internazionale per l’arte dell’attore”, che contiene anche un famoso Master sulla nuova Commedia dell’Arte.

PER PRIMA COSA TI CHIEDO OGGI COSA SEI E COSA FAI.

Innanzi tutto abbiamo cercato di rimanere fedeli alla nostra spinta iniziale, di essere sia produttori che organizzatori, coerenti rispetto all’idea di cercare di fare teatro, impresa culturale, in modo “diverso”, sia artisticamente che socialmente, ma non per fare quelli fuori dal coro a tutti i costi, anzi.

Cioè, io ho una formazione sessantottina, e va bene, con un animo ad essere sempre bastian contrario, ma non si tratta solo di questo. Il 68 ha significato per il teatro prima la nascita di gruppi teatrali organizzati in cooperative e poi la formazione del così detto teatro di gruppo, poi TERZO TEATRO, che aveva molte radici nei gruppi di base. Questo, per dirla in sintesi, ha significato praticare una differenza, ed ha significato avvicinare il fare artistico alla sincerità dei bisogni umani e alla loro condivisione non elitaria. La mia storia personale è caratterizzata fortemente dall’essere stato colpito dal passaggio dell’ ODIN TEATHER di Eugenio Barba, mentre ero studente di cinema, quindi sono stato “convertito” da questo movimento emozionale, umano ed artistico fortissimo, che nel corso degli anni ho approfondito anche da un punto di vista scientifico, in quanto per me, l’Odin ha rappresentato una vera e propria rivoluzione semiologica del teatro. Studiando cinema mi sono reso conto di cosa significava il peso del capitale sull’espressione artistica; ma ero anche un cantante Rock a quei tempi, e capivo bene cosa voleva dire l’impresariato becero sulla distribuzione del  prodotto artistico. La mia è stata ed è una scelta di indipendenza che ha delle ragioni molto forti. Mi auguro che, come tutti i movimenti storici, quello che è stato il frutto di quel periodo non si sia esaurito nella fatalità del “flusso e del riflusso”. Devo ringraziare Eugenio Barba per aver ripreso a parlare di TERZO TEATRO negli ultimi anni; e non è un semplice rinverdire l’idea di un movimento, ma la consapevolezza che quel passo è tutt’altro che compiuto.

Durante questo look down ho partecipato alla nascita di due o tre reti di produttori teatrali, ma a volte il problema è sempre lo stesso: molti rifiutano sdegnati di essere anche organizzatori. Così facendo però si ha la “pretesa” di inserirsi come produttori nel sistema di distribuzione così come si è; e secondo me così facendo ci si vota alla schiavitù o al fallimento. Ma questo, mi rendo conto, è un mio personalissimo modo di vedere la questione.

Noi artisti produttori quindi siamo divisi su questi due fronti. Un fronte, il mio, è dedicato a questa vocazione a fare anche servizio di comunità. A me interessano poco i ragionamenti sulla formazione del nuovo pubblico, la forzata attenzione ai così detti under 35. Sono un vecchio rocchettaro e nessuno più di me ha voglia di sperimentare nuovi linguaggi con le nuove generazioni, ma sono più interessato a quei linguaggi che immediatamente producono una empatia di comunità: il mio incontro, ad esempio con il tuo lavoro è stato un esempio di fratellanza in questa direzione.

Durante questo periodo di chiusura abbiamo cercato di produrre sia spettacoli molto sperimentali, sia spettacoli veramente per famiglie. Cerchiamo di fare dell’ottimo teatro che possa essere visto anche dai bambini e dell’ottimo teatro che possa essere visto anche dagli adulti. In questi gioco di parole c’è il segreto dell’arte.

NEL TUO PERCORSO SI STAGLIANO DUE MOMENTI MOLTO SIGNIFICATIVI: LA FONDAZIONE NEGLI ANNI 70 DEL TEATRO DI VENTURA E SUCCESSIVAMENTE NEGLI ANNI NOVANTA LA FONDAZIONE DELLA SCUOLA SPERIMENTALE DELL’ATTORE.

Il Teatro di Ventura è stato il “parto” di un gruppo di amici che vivevano gli anni dell’università insieme e che hanno avuto la fortuna di condividere alcuni momenti chiave della storia del teatro in quel momento, stiamo parlando del 1973/74. Il primo spettacolo che mettemmo in scena è stato nel 76. Questo gruppetto di studenti aveva avuto la fortuna di condividere le lezioni utopistiche di Mario Apollonio e di Sisto Dalla Palma, lezioni che ci scaldavano il cuore. Andavo a seguire le lezioni sul teatro perché ero convinto che per fare il cinema dovessi capirci qualcosa degli attori e per la stessa ragione mi ero iscritto alla scuola del Piccolo di Milano, dove non c’era ancora la linea di studi dedicata alla regia; per cui se non volevi fare l’attore entravi come uditore. Per gli studi di cinema invece seguivo e mi appassionavo molto alle lezioni di Gianfranco Bettettini, un ingegnere prestato al cinema, che ha fatto degli ottimi film “d’autore” e che realizzava per la RAI quelle che oggi chiameremo SERIE di argomento storico o civile. E’ lui che mi ha instradato alla semiologia. Alla scuola del Piccolo, che aveva una sala adatta al disegno spaziale non tradizionale, in quegli anni arriva l’ODIN. Ed io che sono sempre stato una testa calda , subito dopo lo spettacolo ho avvicinato Eugenio Barba, e gli ho detto : io vengo con voi a studiare. E così qualche mese dopo ho abbandonato tutto e sono partito per andare da loro, avevo 19 anni e mezzo. Con quelli che poi sarebbero stati i compagni del teatro di Ventura allora ci lasciammo, ognuno per partire in una direzione diversa, per poi ritrovarci e fondare la compagnia. Io con l’Odin (insieme a Renata Molinari), chi andò in Barbagia a studiare le ritualità dei pastori, chi in Polonia per approfondire il movimento teatrale intorno a Grotowsky . Poi ci siamo ritrovati ed abbiamo effettivamente fondato la compagnia. Uccidemmo metaforicamente subito il padre (Sisto Dalla Palma), che ci aveva cresciuto e coccolato all’Università che voleva che lo seguissimo nella fondazione del suo CRT (Centro di Ricerca per il Teatro). Ci sarebbe voluto un lungo e paziente lavoro “collaterale”, di animazione nelle scuole per esempio, ma noi volevamo subito produrre uno spettacolo, che in realtà ebbe molta fortuna, a Milano in modo particolare. Ci vide lavorare Federico Doglio e ci chiese se volevamo fare uno spettacolo sui giullari, e realizziamo per il centro di documentazione sul teatro medievale di Viterbo, uno spettacolo sui giullari utilizzando testi giullareschi. Grandissimo successo a Roma e Viterbo, grandissimo insuccesso a Milano, dove i critici dell’epoca si scagliarono contro questo lavoro, perché l’immaginario sui giullari era occupato dalla eccelsa personalità di Dario Fo. Per i critici eravamo troppo acrobatici e fisici, troppo sudati, poco istrionici, per essere dei veri giullari. Ma il successo avuto a Roma era stato molto importante ed infatti da lì inizia, con un invito a rappresentare questo spettacolo, l’avventura del festival di Sant’Arcangelo, che allora era una semplice vetrina estiva, seppure di primissimo ordine, del teatro italiano. Come teatro di Ventura, dopo questo lavoro sui giullari approdiamo alla Commedia dell’Arte (attraverso uno studio dedicato ai burattini tra l’altro) ed iniziamo un lavoro di ricerca che voleva essere, dopo i giullari, la tappa successiva di un percorso dedicato alla italianizzazione del teatro antropologico di Eugenio Barba. Da questi studi nascono due spettacoli molto importanti per noi, uno di strada, “LA TRAGEDIA DELL’ARTE”, dove i personaggi della commedia dell’arte venivano spostati verso delle “diversità” fisiche importanti: storpi, cechi, gobbi che facevano una invasione dello spazio urbano. L’altro spettacolo, che ebbe un successo straordinario, fu un Molière, fatto proprio con il desiderio di non lasciare etichettare il Terzo Teatro come un teatro del corpo e basta. Volevamo usare anche la parola. IL MEDICO PER FORZA, questo il suo titolo, ebbe un successo incredibile, fu anche adottato dalla CGIL, che ci programmava in tutti gli scioperi e le manifestazioni.

Poi realizzammo un progetto folle: andavamo nei i teatri abbandonati del centro Italia, Marche e Abruzzo, proponevamo alle amministrazioni di affidarceli temporaneamente. Noi li pulivamo, li risistemavamo alla meglio e poi ci realizzavamo le repliche del nostro spettacolo. Stavamo in un borgo circa per una settimana. Usavamo lo spettacolo di strada per pubblicizzare l’evento serale e poi, a biglietto, replicavamo il nostro Moliere. In questo modo realizzammo una lunga tournee, riuscendo a pagare gli stipendi a tutti (8 persone) con gli alberghi e i ristoranti. Per quei tempi era davvero un risultato straordinario. Intanto la compagnia era cambiata rispetto al nucleo originale, con alcuni giovani (più giovani di noi) di buonissima volontà, tra cui Lucia Sardo, che ora è una attrice affermata anche nel nuovo cinema italiano.

Questa straordinaria avventura fu il momento più luminoso del Teatri di Ventura. Poi accettammo di trasferirci e di provare ad essere la compagnia residente di Santarcangelo. Non andò bene, per inesperienza, per ignoranza in senso letterale. La mia di sicuro. Alla fine mi ritrovai ad andarmene, da solo, con 40 lire in tasca. Ma io ostinatamente volevo riprovarci, a realizzare una esperienza che fosse di gruppo. Avevo ricevuto l’invito ad insegnare alla scuola di teatro A l’Avogaria di Venezia. Cominciai da lì. La maggior parte degli iscritti erano di Pordenone, dove mi fecero fare una regia di commedia dell’arte. In quell’occasione capisco che in quella città c’erano degli spazi straordinari da poter occupare per realizzare un progetto di teatro attivo. Contemporaneamente continuavo ad insegnare a Venezia. Era il 1984/85. Avevo chiuso la mia esperienza di regista, direttore organizzativo e poi direttore artistico del Festival di Sant’Arcangelo durata 4 anni. Come direttore artistico, se ci penso adesso, avevo realizzato dei programmi incredibili, probabilmente inconsapevolmente, e comunque senza essere capace di comunicarli, data la mia inesperienza “politica”. La stessa che mi costò l’andata via dal festival (e dalla città). Calcola per esempio che il festival si teneva ai primi di luglio, ma il programma si finiva di presentarlo a maggio inoltrato perché, da gennaio a maggio, i partiti che componevano il consorzio che gestiva il festival, litigavano tra loro tenendo il programma in ostaggio. Io ero completamente inadeguato a quel sistema. La rivoluzione del festival portata da Roberto Bacci aveva attirato grandi folle sul festiva, e dunque anche grandi appetiti “di quantità” da parte dell’economia turistica del territorio, ed io ingenuamente non avevo compreso che quel meccanismo non potevo certo scardinarlo. E comunque devo dire che quei politici da parte loro invece testimoniavano per quel che potevano uno sforzo in favore della sperimentazione, cosa che è rimasta fino ad oggi.

Amen. Fondo quindi la scuola di Pordenone, dove con un gruppo di ex allievi occupiamo un prefabbricato enorme che era stato usato per fare una scuola post terremoto del Friuli, e occupato con il tacito consenso del comune. Erano tempi d’oro dove era possibile tutto questo. Tempi d’oro. I nostri seminari erano sempre affollatissimi il triplo di quello che succede oggi. Intanto a “L’Avogaria” ho incontrato CLAUDIA CONTIN, uno dei più grandi Arlecchino, che con le sue intuiizioni e la sua passione ha portato uno sviluppo straordinario nel modo di intendere la gestualità nella commedia dell’arte. Lei inizialmente era una pittrice, Una pittrice “studiata”, con tutte le competenze al potro giusto, compresa quella in anatomia e in fisognomica. Era innamorata del teatro, con a disposizione una grande capacità fisica data dalle diverse discipline fisiche nelle quali si era applicata.

Il primo spettacolo realizzato con lei e scritto da lei, IL MONDOLOGO DI ARLECCHINO, nasce come testo quando Claudia ancora non era un Arlecchino. Tanto che, dopo essersi sorpresa per la mia richiesta di interpretalo lei stessa, per un anno intero lavorò sul potenziamento del suo corpo/mente per poter realizzare questo spettacolo: arti marziali, teatro indiano Kathakali, per esempio, danze etniche ecc.

Oggi, trentacinque anni dopo, in compagnia siamo 5 attori, tutti con anche mansioni generali che vanno dall’organizzazione all’amministrazione, più altrettanti collaboratori esterni a progetto. Romanticamente ancora crediamo nell’attore tutto fare anche se a volte è davvero molto faticoso portare avanti questa scelta.

TU HAI FATTO DA SUBITO UNA SCELTA DI TEATRO DI GRUPPO CHE PORTI ANCORA AVANTI. TI SEI MAI PENTITO?

No non mi sono mai pentito, assolutamente. Tutte le volte che ho sbagliato, ed ho sbagliato tante volte, il gruppo mi ha sempre dato l’opportunità di imparare qualcosa. Anche sui grandi temi della vita devo alla mia appartenenza ad un gruppo se so cosa vuol dire comunicare, so cosa vuol dire la giustizia, so cosa vuol dire la necessità di un leader che non mortifichi anche se qualche volta si prende la responsabilità di fare un passo dove gli altri non vedono. Se ho imparato tutto questo è per l’appartenenza ad un gruppo. Ma soprattutto ho imparato a scrivere per gli attori. Posso dire che adesso scrivo testi e comportamenti che valorizzano le loro energie.

COME HAI VISSUTO QUESTA PANDEMIA.

In un primo tempo noi italiani siamo stati tutti solidali, ne percepivamo la necessità. Durante le mie passeggiate nel vuoto e nel silenzio delle città di quel momento mi sono imbattuto in un papavero che spuntava dall’asfalto ed ho pensato che la sopravvivenza del teatro dipenderà da quanto saremo in grado di adattarci e di cambiare. Ma semplicemente dobbiamo non tradirlo, aiutarlo. La forza per spuntare dall’asfalto ce l’ha da solo.

Riguardo al distanziamento, in scena, in sala o in altri spazi, devo essere sincero: a me piace; un po’ perché si respira meglio che affollati, e un po’ perché mi costringe a dover trovare altre soluzioni. Sono figlio di quella generazione che ha messo gli spettatori ovunque, sconvolgendo i rituali del teatro tradizionale, mi inventerò sicuramente qualcosa con questo metro e mezzo di distanziamento.

CHE RAPPORTO HAI CON LO STREAMING.

Pessimo. Ho scoperto che per certe cose si può non viaggiare per fare una riunione, ma certo non restituisce nulla dello spettacolo dal vivo. Detto questo io penso che la vita non si deve arrendere mai qualsiasi cosa succede; rincuoro in questo modo i miei compagni. Quest’anno è più difficile di quello passato, i politici sono più confusi, noi persone comuni non sappiamo se stiamo facendo da giusti o da stupidi… Però bisogna avere la forza ogni giorno di chiederci cosa possiamo fare. Quindi ci siamo inventati anche noi tante cose: per esempio, l’ultima trovata, spettacoli di 15 minuti da portare nelle classi con gli attori che usano il protocollo dei supplenti. O, l’anno scorso, i mercoledì su facebook. Per quanto poco entusiasmanti, sono stati tutti tentativi per “trovarsi” con il pubblico. Ci siamo chiesti inoltre, come mai il teatro in televisione negli anni 70 funzionava, ed abbiamo verificato che le tecniche di ripresa erano simili a quelle delle partite di calcio, con tante telecamere in azione, quindi con una regia dal vivo straordinaria e con un regista, solitamente teatrale, capace di fare regia all’impronta. Con i nostri miseri mezzi abbiamo provato a replicare questa impostazione, e funziona! Quindi ho un rapporto pessimo con lo streaming ma se è l’unico modo per fare teatro cercherò di usarlo al meglio.

SE IL MINISTRO FRANCESCHINI TI CHIAMASSE PER UN CONSIGLIO, TU DA DOVE INIZIERESTI.

Ho avuto ed ho la fortuna di andare a lavorare come regista in Russia e lì il sistema teatrale è affidato molto alle compagnie. I teatri stabili – classici, di ricerca o per ragazzi – sono tutti basati su compagnie stabili. Sono pensati come luoghi di accoglienza e di elaborazione del grande bisogno di teatro della popolazione. Con un’anima. Quindi io direi al ministro che se non vuole trasformare tutto in un unico grande Netflix deve dare attenzione alle compagnie. Premiare la stabilità e la specificità creativa. Le compagnie sono il centro della vita del teatro ed è questo che trovo in Russia. Pensa che addirittura quando inizio una produzione in uno stabile, già mi fanno provare con due attori per ogni ruolo, già prevedono eventuali sostituzioni per malattie o gravidanze; incredibile per noi oggi. Questo direi a Franceschini, il teatro si sta allontanando troppo dalle compagnie, dai capocomici, dai registi con un gruppo fisso di attori, dagli scrittori che scrivano per quegli attori in particolare…

intervista a cura di Maurizio Stammati