TIRITERI, TEATRO DELL’INVENZIONE. Intervista con Alberto Zoina.

Quando nasce una compagnia, c’è il problema del nome da scegliere, quel nome che poi rappresenta, descrive, evoca, raffigura.  Mi piacerebbe aver assistito nel 1987, al momento, in cui Anna Di Lena ed Alberto Zoina scelgono il nome “Tiriteri”, per la loro compagnia. Chissà come ci sono arrivati.

Tiriteri” è un nome pieno, simpatico, rassicurante ma anche energetico, che tiene svegli come uno squillo di tromba. E’ un nome che evoca burattinai e filastrocche, cantilene e giochi antichi, un nome perfetto per una compagnia che (fra mille altri flussi), rivolge una grandissima devozione al mondo dell’infanzia e, dischiudendo il mondo del teatro ai più piccoli, incanta anche i grandi e regala loro la sensazione di essere come tornati in sé, di essere tornati a casa. Il nome completo è “Tiriteri – teatro dell’invenzione”; non una, dunque, ma quattro parole, a testimonianza della complessità di un percorso artistico che ha tracciato e traccia ben più di un sentiero. 

In questo momento di grande confusione, ecco qualche domanda da mille dollari per Alberto; chissà che non sappia indicarci quali stelle seguire in questa notte buia.

Ciao Alberto. Puoi spiegarci cos’è un “teatro dell’Invenzione”?

Già. A dirla così sembra che ci sia dietro una dichiarazione di metodo… E non ci starebbe nemmeno male, vista la mia (nostra, come di tanti) predilezione per un teatro fatto di ingegno e manualità… Però il metodo non c’è. Ciascuno fa quello che gli viene meglio. E poi nel teatro c’è posto per i molti significati dell’invenzione: il dar corpo ad una fantasia, arrangiare un congegno, improvvisare una soluzione, far musica nuova, vagheggiare imprese, stupire le genti, tirar pane dall’aria… cose così, per cui tanto piacque la parola ai poeti barocchi, sia che scrivessero favole, o facessero rime, o feste, o scherzi… Quanto a noi, trenta e più anni fa, in bilico fra Tradizione e Innovazione, tutte maiuscole, abbiamo preferito metterci in capo la berretta dell’invenzione: minuscola, giocosa, effimera.

Riesci a scorgere, nel teatro ragazzi, piccole o grandi tensioni, piccoli o grandi fermenti, esperienze interessanti che faranno forse nascere nuovi frutti, daranno nuova linfa?

Tensioni, fermenti?: ce ne sono sempre, anche se non guadagnano visibilità, o se la loro percezione è offuscata, equivocata per qualche ragione, magari non sempre nobile… Ce ne sono anche in questa stagione sfortunata, di cui le restrizioni sono solo il compimento. Ma non credo che si debbano, o si possano cercare nelle generalità condivise, nella “categoria”. C’è solo il lavoro degli artisti, sempre geloso, poco comunicabile, condotto per lo più in territorio ostile. Non c’è da farsi illusioni. La condivisione in arte è come l’amicizia: un miracolo.

Come consideri l’esplosione dei tentativi, dei teatranti, di cercare una via telematica?

Commovente. Un po’ inutile. Almeno nella sua pretesa di salvare il rapporto col pubblico. L’accostamento di tecnologia e teatro dà qualche frutto interessante solo nello spettacolo dal vivo. Invece il video esaurisce la funzione spettacolare all’interno del suo linguaggio specifico, e amen. Se invece consideri il teatro da web nella sua normalità promozionale, nel necessario aggiornamento degli strumenti comunicativi a disposizione della professione, non ci vedo niente di sorprendente. Ma come ogni spesa pubblicitaria esagerata, corre il rischio di saturare l’attenzione. Un errore, una smania spero passeggera.

Intravedi linee di ripresa possibili per il nostro teatro? Come si fa a ri-costruire una normalità in un settore anomalo al quadrato (non solo teatro, ma “teatro per ragazzi”)?

Colgo un pizzico d’angoscia, nella domanda. Comprensibile. La mia generazione, ossia i quarant’anni circa spesi nel teatro per i ragazzi, si è consumata nel tentativo di dare una “normalità” a questa offerta culturale. Con alti e bassi, ma tutto sommato, lungo una curva ascendente. Così, il teatro per la scuola è diventato “normale”, le domeniche per le famiglie sono diventate “normali”, rassegne estive e piccoli teatri specializzati sono diventati “normali”. E malgrado il devastante sistema del finanziamento pubblico, questa offerta si è diffusa in provincia, nei piccoli comuni: sul territorio, come si dice. Alimentando sinergie complesse: con l’editoria, con l’educazione, con l’assistenza, con la formazione… Una risorsa civile straordinaria, e poco costosa (ossia politicamente irrilevante). Infatti, non si sono trovati difensori quando il territorio è stato drasticamente prosciugato di ogni disponibilità “superflua”: addio domeniche a teatro, addio burattini, addio laboratori… Una “crisi” che dura dal 2008, prodotta dai vincoli sul debito e dai vari aggiornamenti dei patti di stabilità. Perciò, buttandola sul venale, non vedo altre possibilità di ripresa se non riguadagnando risorse a disposizione di comuni, associazioni, progetti locali, adeguati alla microfunzionalità del teatro per i più giovani. E magari, in tempi umani: per non ritrovarsi a dover inventare daccapo la ruota…

L’emergenza pandemia sembra aver scosso anche i burocrati. Credi in un rinnovamento del rapporto con le istituzioni?

Qui basterebbe un No. Ma non ne facciamo una questione umorale, o di fede. Il problema delle istituzioni, di qualsiasi istituzione, sono le competenze. I burocrati vengono allevati come mastini, guardiani del portafoglio, obbediscono al dettato politico, e in mancanza di quello, alle convenienze, proprie o altrui… In ambito culturale, poi, le cose peggiorano ancora, perché alle competenze andrebbero aggiunte variabili strane, come sensibilità sociale, visione, buone letture e altre diavolerie così. La stanchezza da pandemia potrebbe giocare a favore. Tuttavia, progetti chiari, bilanci blindati, collaborazioni articolate, supporto scientifico e impaginazione a colori saranno sempre utili a convincere l’ufficio competente (sic!) a starti a sentire. Lo troverai sempre là: uno alla volta prego, con mascherina.

E lo spettatore? C’è un rifugio per lui, finché non potrà tornare a teatro?

Lo spettatore, beato lui, un tetto ce l’ha quasi sempre. Ma a casa sua è spettatore solo davanti allo schermo. Bisognerebbe farlo partecipare, invitarlo nell’attesa a diventare anche “produttore”, dargli magari la possibilità di comprare, al posto del biglietto della domenica, una quota (piccola piccola) degli spettacoli che vedrà quando si potrà. Chiedergli insomma di trasformarsi da consumatore occasionale in motore del flusso culturale. Ci vuole una certa abilità comunicativa e un po’ di fede nella comunità di riferimento: genitori, scuola, fans… Un lavoro adatto ai più giovani (come si scrive un sorriso?).

Ecco fatto. A fine intervista, arriva la batosta: “Bisogna lavorare”: lavorare sul pubblico e senza scuse; lavorare sulla comunicativa e diventare più abili; lavorare sulla comunità e persino lavorare “da giovani”, per allargare la strada (visto che i giovani veri, quando devono percorrerla in autonomia, riescono a passarci con difficoltà). La stella cometa altro non è che l’impegno instancabile.

Grazie Alberto per queste frasi guizzanti e nitide che ci rendono evidente che, alla fine di ogni discorso, per i teatranti, non c’è che da lavorare. Anche quando il lavoro non c’è.

Intervista di Eugenio Incarnati