TEATRO IN CARCERE L’ESPERIENZA DEL TEATRO PEDAGOGICO CON LE DETENUTE E I DETENUTI DELLA CASA CIRCONDARIALE DI LATINA

TEATRO IN CARCERE

L’ESPERIENZA DEL TEATRO PEDAGOGICO CON LE DETENUTE E I DETENUTI DELLA CASA CIRCONDARIALE DI LATINA

INTERVISTA CON RODOLFO CRAIA FUNZIONARIO GIURIDICO PEDAGOGICO, RESPONSABILE AREA EDUCATIVA DELLA CASA CIRCONDARIALE DI LATINA.

 

1) Ci racconti il suo percorso professionale e le ragioni della scelta lavorativa di fare l’Educatore in carcere.

Sono entrato nell’Amministrazione Penitenziaria quasi per caso ormai trent’anni fa… In quel periodo lavoravo nello studio di un professionista, dei parenti mi consigliarono di partecipare ad un concorso per tecnico agrario del DAP; lo vinsi ottimamente piazzato ma le sedi erano tutte sulle isole sedi di colonie penali, mi assegnarono la sede di Pianosa (isola dell’Arcipelago Toscano), dismessa nel 1998 è oggi un parco regionale. Ricordo che sbarcai sull’isola decisamente straniato, con la sensazione di essere stato teletrasportato all’interno di una dimensione spaziotemporale che nulla aveva a che fare con il mondo fino ad allora conosciuto. Vissi due anni di esperienza unica, certamente importante sul piano professionale, ma straordinaria per l’opportunità di scoprire se stessi e di comprendere l’altro, ancor più grazie al relazionarmi con persone con reati spesso gravissimi, molti ergastolani, che avevano la necessità di dare un senso al proprio tempo, alla vita che restava loro da vivere, quindi di ideare un progetto di vita che fosse congruo oltre quel mare che ci separava dal mondo reale. Anche il resto del personale penitenziario più anziano veniva da storie complesse, specie i poliziotti, i cui racconti, spesso condivisi vicino ad un camino o attorno ad un tavolo, narravano di criminalità e di galera, con vissuti che avrebbero decisamente influenzato la mia comprensione del mondo carcerario e delle sue complesse logiche.

Alla chiusura di Pianosa seguì la Casa Circondariale di Velletri per la quale elaborai un innovativo progetto per una azienda agricola intramuraria ad elevatissimo livello di qualificazione, con colture protette, produzione di vino, olio, conserve, funghi, miele… sempre con l’obiettivo di realizzare il miglior prodotto possibile, poiché la cui bontà doveva derivare dalla qualità della formazione dei detenuti e conseguentemente dal buon lavoro da loro svolto. Sì, ero un tecnico, ma provavo a dare valore al termine “rieducazione”, di concretizzare sia il significato del lavoro per la persona detenuta, sia del senso trattamentale dell’apprendimento e della relazione umana, delineati sì dall’Ordinamento Penitenziario che avevo studiato, ma che solo nella reciprocità che la terra ci attribuiva, nonostante la precisa definizione dei ruoli, mi consentiva di ascoltare quindi di riflettere ed agire per fare qualcosa di efficace per il cambiamento per la persona. In fin dei conti mi sentivo più un insegnante che un tecnico, in qualche modo raccoglievo l’eredità paterna, la responsabilità sociale che caratterizzava il mio genitore che aveva lasciato i suoi studenti, e la sua famiglia, troppo prematuramente per un male incurabile.

Educare e rieducare, scuola e carcere hanno tanti elementi in comune, paralleli ed incroci, istituzioni concepite per (ri)modellare il comportamento umano attraverso la disciplina, la gestione dello spazio e del tempo.. Ma il carcere, a differenza della scuola, rappresenta la sanzione penale, deve rieducare e risocializzare come indica la nostra Costituzione, quindi, per avere un senso deve superare la mera espiazione della condanna, ma rappresentare una opportunità per il cambiamento, prescindendo dagli strumenti offerti. L’istituzione ha la responsabilità di indicare la via e di sostenere il percorso di crescita e cambiamento, la persona detenuta a sua volta deve dimostrare la sua rilettura critica del vissuto e la comprensione del danno cagionato, perciò insieme costruire quell’inclusione che restituisce valore al tempo trascorso.

Tornando al racconto della mia “transizione”, vennero poi altre esperienze in altri istituti che si unirono al lavoro su Velletri, ma che mi spinsero in vario modo a scegliere di spostare il lavoro in maniera più specifica nell’ambito educativo, soprattutto a seguito di un concorso interno all’Amministrazione che mi permise acquisire la qualifica educatore e la sede di Latina, ormai città di adozione. A quel punto andavano ampliate le conoscenze e rese ancor più coerenti coi nuovi obiettivi e responsabilità professionali; cosi arrivò prima una laurea in scienze dell’educazione, poi in psicologia, master e specializzazioni, ricerche e pubblicazioni scientifiche, quindi incarichi accademici. Sempre tenendo presente quella sorte di “missione”, di responsabilità che scoprii, che intesi nel sibilare del maestrale che mi avvolgeva osservando l’infinito del mare dalla “Punta del Marchese” di Pianosa, tra i resti del vecchio sanatorio dove venivano condotti i reclusi malati di tubercolosi, immerso tra l’orrore dell’uomo e la spietata bellezza della natura.

2 ) Quando ha compreso che nell’attività teatrale poteva esserci una possibilità in più per i detenuti?

L’alleanza con il teatro è nata negli anni 2007/2008, ero da poco arrivato nella Casa Circondariale di Latina, c’era già uno spazio dedicato al palcoscenico normalmente utilizzato dalle insegnanti della scuola che annualmente realizzava una esperienza teatrale con le donne detenute in Alta Sicurezza. Il salto di qualità si ebbe pochi anni dopo con diversi progetti regionali che permisero l’arrivo di associazioni con operatori di provata esperienza nel teatro sociale, permettendo di dare corso anche a Latina a quei laboratori che si stavano sviluppando a macchia d’olio in tanti penitenziari italiani. Già in quel periodo si sovrapposero diverse attività, permettendo di diversificare gli interventi in funzione delle caratteristiche e/o delle problematiche specifiche dell’utenza, nonché delle specifiche competenze degli operatori incaricati. Rispetto al Teatro fino a quel momento avevo avuto solo esperienze da spettatore, da ragazzo ero un abbonato al teatro romano di Minturnae e solo sporadicamente mi affacciavo nei teatri locali, prima ancora timido interprete nelle recite scolastiche, è però vero che ho avuto un mio omonimo familiare, purtroppo recentemente scomparso, che aveva dedicato l’intera vita al teatro come attore e regista. Tornando all’esperienza penitenziaria, in quel periodo stavo studiando il teatro pedagogico, avvicinandomi a quelle specifiche tecniche finalizzate allo sviluppo della persona, quindi a potenziarne la creatività, la comunicazione, l’empatia e la consapevolezza di sé; sollecitavo (rompevo le scatole) registi e operatori a muoversi in quella direzione poiché immaginavo una via diversa, alternativa, ma parallela, rispetto allo strumento rieducativo del lavoro che in passato avevo ben maneggiato… Poi, con lo studio della psicologia venni attratto dalla teatro terapia e dallo psicodramma di Moreno, ma quella è un’altra storia, poiché richiede specifici setting e condizioni operative che solo raramente si possono trovare negli istituti penitenziari e che pertanto devono essere maneggiati con particolare prudenza… Da parte mia ho evitato di essere troppo ingerente nelle scelte tecniche ed artistiche di chi ritengo ne sappia più di me, il teatro non è il mio lavoro, è uno strumento educativo, potentissimo, che cerco solo di rendere funzionale al contesto e alle esigenze dell’utenza, soprattutto evitando che possa far danni. Si, danni, il rischio è dato dalla potenziale “morbosa” fascinazione che qualcuno degli operatori, colpito dalle biografie di qualche detenuto, potrebbe subire con conseguenze imprevedibili e pericolose, per le persone e per l’istituzione. Da questo punto di vista, la formazione specifica e l’affiancamento con gli operatori delle aree educative, psicologi compresi, con osservazione e costanti monitoraggi, è un aspetto fondamentale da tener presente e da curare in ogni progetto, anche il più apparentemente innocuo. Devo sottolineare che molta dell’utenza carceraria ha problemi di natura psichiatrica e di dipendenze, il teatro può essere uno strumento di sostegno finanche terapeutico, ma è da gestire con sapienza modulandolo con attenzione per evitare che sfugga di mano… Tra le tantissime situazioni complesse, ho memoria di un giovane detenuto andato in crisi quando, sollecitato da una operatrice inesperta, rivisse l’esperienza del duplice omicidio da lui commesso; oppure, in tutt’altra circostanza, con le donne, una regista utilizzando le tecniche di Lecoq indusse alcune di loro a rivivere, mimando, l’esperienza della maternità e il contatto con la prole… Vi lascio immaginare le conseguenze! Non di meno, quando l’obiettivo del laboratorio è l’osservazione diretta all’analisi del comportamento e della revisione critica del detenuto, i risultati devono essere analizzati e validati all’interno del gruppo interprofessionale, confrontando tutti gli elementi comportamentali raccolti durante la vita penitenziaria. Quindi, non considerando gli esiti del teatro sul singolo una inoppugnabile verità, poiché il teatro è sì finzione ma mai dev’essere falso!

3) Vista la sua grande esperienza, ci spiega come si fa a “navigare” in un luogo complesso come il carcere?

Credo che la risposta in qualche modo sia tra le righe di quanto ci siamo detti sinora: motivazione! Da parte mia aggiungo la passione per quello che faccio, unita alla fortuna di aver trovato direzioni, colleghi e condizioni complessive per dedicarmi a quelle cose che mi piace fare e, tra queste c’è il teatro. Inoltre, il mio incarico di responsabile d’Area mi permette di pianificare, organizzare e monitorare le progettualità anche indirizzandole verso l’utenza specifica, nonostante le risorse arrivino esclusivamente da soggetti finanziati da enti esterni a quello penitenziario, un motivo in più per avere le idee chiare sugli obiettivi da raggiungere. Comunque è dura, lo scoramento è praticamente quotidiano, con i colleghi abbiamo imparato a fissare obbiettivi realistici, navigando tra la burocrazia e una dolorosa involuzione sociale. In ogni modo, ogni istituto penitenziario ha le sue peculiarità, noi siamo per quanto riguarda il maschile un piccolo istituto di flusso, appena condannati sono trasferiti in altre carceri, raramente scontano la pena con noi quindi puntiamo a gestire la crisi della detenzione riducendo al massimo il “danno”, e da questo punto di vista il teatro è un grandissimo aiuto, tanto che da diversi anni la ASL Dipartimento di Salute Mentale, ci supporta concretamente finanziando i laboratori. Per le donne la storia è diversa, sono in Alta Sicurezza per reati collegati alla criminalità organizzata, normalmente scontano da noi l’intera pena, per loro il teatro ha un grandissimo valore di emancipazione e crescita culturale, magari potenzialmente utile ad innescare quei meccanismi di consapevolezza e rilettura del vissuto fondamentali per operare scelte diverse per il loro futuro una volta libere.

4) Può raccontarci una delle esperienze più significative di teatro in carcere da lei vissute?

Tutto ciò che abbiamo fatto in quasi vent’anni ha avuto il suo valore e significato, ogni laboratorio ha raccolto l’eredità del precedente, ogni attore, ogni regista, ogni tecnico ha lasciato il suo segno. Abbiamo lavorato sull’autobiografia, con i classici, riadattato il teatro greco, quindi passando da Shakespeare a Brecht, e ancora le fiabe di Basile con la maestosità della Gatta Cenerentola cantata e suonata dal vivo, quindi dramma e comica, e ancora, commedia dell’arte, Pinocchio… Ogni volta con un “merda!” che sublimava il luogo, superando le sbarre e commuovendo tutti, operatori, detenuti e spettatori, questi ultimi, tra i più vari, che sommati negli anni sono qualche migliaio…

Mi permetto solo di sottolineare un’esperienza, una giornata particolare passata con Renato Zero per la realizzazione del video di “Un’apertura d’ali” nel 2014, con la regia di Alessandro D’Alatri, purtroppo recentemente scomparso, credo che ogni commento sia superfluo, basta guardare il video delle “Cattive Ragazze di Via Aspromonte” per comprendere. https://www.youtube.com/watch?v=3nGCjv66lng

5) Il teatro è presente ormai in molti penitenziari italiani, alla luce di tutto quello che ci ha raccontato, queste attività riescono ad offrire una possibilità ai detenuti una volta usciti, oppure è solo un passatempo temporaneo per alleggerire la pena e la detenzione?

L’essenza del teatro in carcere è quanto vi ho raccontato, ci sono esperienze in Italia ben più importanti e rilevanti della mia, mi vengono in mente gruppi come quello di Rebibbia che hanno vinto premi internazionali con attori ormai professionisti affermati, altri che hanno fatto storia come quello di Volterra, oppure la compagnia di ex detenute “Le Donne del Muro Alto”, c’è un’infinità di esperienze di valore, tutte in qualche modo hanno segnato la vita di coloro che vi hanno partecipato. Perché, in fin dei conti, il teatro penitenziario non è distante da quello amatoriale, è un passatempo, è una terapia, ma può diventare una professione, per gli attori ma anche creare mestieri, basta crederci quindi investire tempo e risorse.

A cura di Maurizio Stammati e Peter Ercolano