Masako Matsushita – un’artista del movimento
Masako Matsushita è una danzatrice italo-giapponese, che vive in Italia e collabora con professionisti di diversi ambiti, rendendosi partecipe attiva del palcoscenico creativo europeo contemporaneo, sostenendo iniziative incentrate su arte, sostenibilità e impegno sociale.
Una danzatrice senz’altro, ma anche un’artista a trecentosessanta grandi che indaga la relazione tra corpo, tempo, spazio, estetica, identità e culture, sviluppando processi creativi, anche partecipativi, che spaziano da performance, coreografie, spettacoli, installazioni, progetti comunitari ed educativi, atti a favorire il dialogo sul nostro tempo e la riflessione sui significati del movimento oggi.
Ma adesso ascoltiamo la voce di Masako:
1 Masako, quando ti sei resa conto che la danza sarebbe stata la tua strada?
Fin da bambina mi è sempre piaciuto creare e fare spettacoli. Giocavo con stoffe e oggetti che avevo in casa, mi travestivo con i miei fratelli e avevo persino inventato una piccola “radio” nel cortile di casa, dove mettevo in scena racconti e canzoni per i vicini. In fondo, direi semplicemente che la danza è sempre stata parte di me.

Ma se devo individuare un momento preciso, il primo risale a quando avevo quattro anni. Passando con mia madre davanti a una palestra di ginnastica ritmica, vidi le finestre aperte, mi fermai incantata e dissi: “Io voglio fare questo, mamma.” Da lì ho iniziato a sperimentare diversi stili, tra i vari corsi di ginnastica, danza classica, hip hop, moderna, teatro, gettando i primi semi della mia passione.
Il secondo momento è arrivato dopo il liceo. Decisa a dedicarmi completamente alla danza, mi iscrissi a una scuola accademica, ma l’ambiente, troppo televisivo, non mi rispecchiava e mi lasciò molto delusa. Sentivo però che la danza aveva una magia più profonda, un orizzonte che dovevo ancora scoprire, ma nonostante lo cercassi, non riuscivo a trovarlo. Proprio quando avevo scelto di allontanarmi da Lei, una serie di circostanze mi portarono a frequentare una lezione di danza in una scuola a Barcellona e lì l’ho vista con occhi nuovi e ho capito che non dovevo assolutamente mollare.
In seguito, al Laban di Londra (una splendida università di danza contemporanea) ho scoperto che quest’arte poteva essere molto più di ciò che avevo immaginato: ricerca, linguaggio, teoria, comunicazione e connessione con la società. Era il luogo giusto per me, e da quel momento ho iniziato a costruire il mio mondo nella danza, quello che ancora oggi continuo a vivere e creare.
2 Ti senti più una danzatrice o un’artista? Ammesso che le due cose si possano scindere!
Anch’io me lo sono chiesta spesso. Nel definirmi semplicemente “danzatrice” mi sento un po’ limitata. Sto sperimentando altre definizioni, perché nel mio lavoro convivono più dimensioni. A volte mi piace pensarmi come an artist trained in dance and choreography, cioè un’artista formata nella danza e nella coreografia, o più semplicemente, un’artista del movimento.
Ridursi alla sola parola “danzatrice” è difficile, perché rappresenta solo una parte di ciò che faccio. Oltre alla danza ci sono la creazione, la ricerca, la direzione artistica… tutte competenze che completano e ampliano la mia identità artistica.
3 La cultura giapponese e quella italiana sono entrambe parti della tua essenza personale. In che modo hanno contribuito o influito sulla tua identità di danzatrice e artista?
Il Giappone, con la sua gestualità, la postura e l’attenzione ai dettagli, senz’altro vive dentro di me, nei miei atteggiamenti, nei miei ragionamenti, nel mio modo di muovermi e di pensare la danza. La mia infanzia è sempre stata una mescolanza armoniosa di due mondi che hanno una componente culturale importante a livello di movimenti, e sin da piccola ho vissuto la fusione di entrambe le culture nella mia quotidianità in modo molto naturale. Da bambini mio padre ci insegnava aikido alle sei del mattino, e mia madre praticava shiatsu. Il movimento come forma di benessere è sempre stato parte della mia famiglia. Ma anche la comunicazione aveva una componente fortemente corporea. Mio padre parlava poco italiano o inglese, e mia madre poco giapponese, quindi spesso il corpo diventava linguaggio. Il movimento era davvero un modo per condividere ed entrate in contatto in casa mia.
4 Cosa comporta per una donna in Italia essere una danzatrice, un’artista?
Credo che, per una donna in Italia, essere un’artista significhi doversi chiedere spesso se vale la pena continuare, e non tanto per mancanza di fiducia nelle proprie capacità, ma per l’immensa fatica che comporta. La danza è un lavoro “vero”, non un passatempo, ma in Italia è ancora complicato farlo capire.
Anche spiegare ciò che si fa non è semplice: quando dici “sono una danzatrice”, spesso la risposta è “sì, ma che lavoro fai davvero?”. C’è ancora molta strada da fare per dare alla danza, e a chi la vive come professionista, il riconoscimento che merita.
Anche a livello familiare non è sempre semplice far comprendere e legittimare questa professione, soprattutto per chi diventa madre. Sentirsi sostenute e riconosciute è fondamentale per non dover rinunciare alla propria carriera. Io ho sempre portato mio figlio con me, ho fatto “i salti mortali” per riuscire a fare convivere le due cose, è stato difficile, ma avevo paura di perdere il lavoro e ciò che con tanta fatica avevo costruito.
Come in molti altri mestieri, artistici e non, anche nel mondo della danza le donne hanno ancora meno spazio e meno possibilità. Sono poche le realtà dirette da donne, ed è difficile anche creare una rete di sostegno reciproco, che riconosca il valore e i diritti di tale professione.
5 Puoi dirci qualcosa del panorama della danza italiana, ed europeo?
In Italia la danza è ancora poco sostenuta. In altri Paesi europei, come Francia, Germania o Olanda, esistono molte più compagnie stabili e una programmazione più ampia, anche in città medio-piccole di 100 o 200 mila abitanti. Spesso lì trovi una compagnia di danza o di musica stabile e un pubblico numeroso, c’è una cultura diversa, sia in termini di riconoscimento economico che di considerazione artistica.
Anche in Svizzera e nei paesi scandinavi il sistema è molto più strutturato. La danza è riconosciuta come una professione a tutti gli effetti, con associazioni, agevolazioni e un welfare che permette agli artisti di vivere con maggiore sicurezza e qualità. Gli standard sono più alti e il sistema è più meritocratico di solito, ci sono più cambiamenti nelle direzioni artistiche, più movimento e più opportunità per i giovani.
In alcuni paesi, come la Norvegia, nelle commissioni che valutano le domande per le sovvenzioni siedono anche artisti, e questo fa sì che il giudizio sia più equo e aderente alla realtà del settore.
6 Qual è stato lo spettacolo/progetto più emozionante e significativa della tua storia?
Direi TAIKOKIAT SHINDŌ, un spettacolo che vede l’incontro tra danza e musica, tra Oriente e Occidente. Per me ha significato portare la mia parte giapponese all’interno di una coreografia occidentale ed è stata un’esplorazione profonda delle mie origini. Anche il musicista ha un padre giapponese, e condividere questo progetto con lui ha reso l’esperienza ancora più intensa ed autentica. È stata una produzione complessa, ho lavorato sul movimento, ma anche sui costumi, sulle atmosfere, sugli oggetti, e alla fine danza, arte e musica si fondevano assieme dando corpo ai nostri mondi interiori, alle nostre storie.
Anche UN/DRESS | MOVING PAINTING, è stata per me una produzione molto importante e che si è evoluta nel tempo e si evolve tuttora. È uno spettacolo sulla migrazione del tessuto, sulla pelle intesa come tessuto, sul corpo femminile, il consumismo e la trasformazione. Per lo spettatore è come osservare un quadro in movimento.

7 A cosa stai lavorando ora? Fai progetti per ragazzi?
Si sto lavorando al progetto SCARTO/SCRAP, IL VALORE DI CIÒ CHE RESTA che è un progetto per ragazzi della scuola secondaria.
È un percorso artistico interdisciplinare che valorizza l’elemento dello “scarto”, mettendo in dialogo danza, Intelligenza Artificiale e sostenibilità. Al centro ci sono temi come l’ingiustizia intergenerazionale e l’eco-ansia, che incidono profondamente sulla salute delle giovani generazioni. Il progetto invita studenti dagli 11 ai 15 anni a riflettere sulle implicazioni della Just Transition, stimolando capacità critiche, immaginazione e sensibilità verso il futuro del pianeta. Attraverso pratiche di danza condividiamo con loro degli strumenti per fare in modo che possano dare forma loro stessi a dei progetti artistici sulla tematica del clima. È un progetto che stimo moltissimo e trovo molto utile. Al momento è attivo nelle scuole di Bergamo, ma è stato prenotato anche a Pesaro ed Helsinki.
8 C’è qualcosa che vorresti dire a tutte le bambine e i bambini che amano la danza?
Se ami la danza, non mollare mai. La danza è uno strumento espressivo straordinario e vastissimo. Ha moltissime forme, linguaggi e possibilità. Se senti che ti chiama, ascoltala. Cerca, esplora, scopri quale delle sue tante forme è quella più adatta a te e in che modo può fondersi con il tuo modo di essere, fino a diventare qualcosa di nuovo, autentico e tuo.
9 Progetti futuri? Sogni?
Il mio sogno è quello di non mollare mai la danza e non abbandonarla, anche quando nella pratica diventa difficile. Desidero continuare ad ascoltare quella mia voce interiore che mi ricorda ogni giorno l’amore e la passione che ho per questo mondo. Vorrei che si trovasse un modo per far entrare nella coscienza di tutti che la danza non è solo intrattenimento, ma è espressione di sé, comunicazione, società, verità, vita. È relazione con lo spazio, allenamento dei sensi, una forma di intelligenza del corpo. E questa consapevolezza può esistere in qualunque attività motoria o artistica. Anche se la danza unisce arte e movimento, creatività e fisicità. Ed è difficile trovare qualcosa che le somigli davvero.

A cura di Veleria Muccioli

