ROBERTO ANGLISANI E IL TEATRO DI NARRAZIONE

Decido di intervistare Roberto Anglisani (classe 1955), uno tra i protagonisti indiscussi del Teatro di narrazione, dopo averlo visto affascinare e incantare il nostro pubblico con lo spettacolo “Minotauro”, grazie ad una tecnica impeccabile, ad immagini evocate e ritmi cinematografici che creano nello spettatore una grande empatia e provocano forti emozioni. Ecco cosa ci racconta della sua carriera e del linguaggio di narrazione.

Innanzi tutto quando hai scelto di fare del teatro il tuo lavoro? Come sono stati i tuoi inizi?

 Quando ho iniziato ho cominciato in una compagnia che si chiamava Comuna Baires. Ho cominciato nei loro laboratori e poi sono entrato nello spettacolo che stavano preparando. A quei tempi io avevo un lavoro fisso, che ho lasciato per cominciare un’esperienza che non avrebbe avuto uno stipendio sicuro, che non aveva nessun tipo di sicurezza, tranne il fatto che ero certo che fosse proprio quello che volevo fare nella vita. Quindi sceglievo una precarietà economica ma sceglievo anche la certezza creativa del teatro, che avrebbe dato, come poi è stato, un senso a tutta la mia vita. Nella Comuna Baires ho cominciato a ricevere le prime tecniche, i primi metodi per poter muovermi su un palcoscenico. È stata insomma quella la mia prima scuola di formazione. Il metodo che usava quella compagnia per fare teatro era il metodo Stanislavskij che poi mi ha accompagnato anche fuori da quel gruppo e ancora oggi è la mia base teorica per fare il teatro che faccio.

 Qual è secondo te la forza del linguaggio del teatro di narrazione?

 La forza del teatro di narrazione è più di una. Intanto dal punto di vista economico non necessita di grosse strutture. Necessita però di una tecnica forte, e di una conoscenza dell’arte dell’attore abbastanza profonda, nonché di una buona esperienza del palcoscenico. La forza peculiare di questa forma di teatro sta nell’usare l’immaginazione dello spettatore come strumento per generare visione e di conseguenza emozioni. Lo spettatore, quindi, diventa tuo partner; apparentemente non fa niente, non sale sulla scena, non parla e non agisce, ma mette a disposizione la sua vita e la sua esperienza per poter immaginare ciò che tu dici. Questo è però un sistema che necessita di una conoscenza del linguaggio narrativo per il teatro e anche di una drammaturgia specifica per questo tipo di linguaggio.

 I ragazzi e le ragazze di oggi, poco abituati alle storie e bombardati di immagini a ritmi incalzanti, come si rapportano al linguaggio teatrale di narrazione?

 Io credo che i ragazzi di oggi abbiano più strumenti di un tempo per poter fruire e godere del teatro di narrazione. Proprio grazie alle centinaia di immagini viste in film, serie televisive, cartoni animati, i ragazzi hanno maggiore facilità a seguire una creazione che si basa proprio su un linguaggio fatto di immagini in movimento. È vero che queste immagini non si possono vedere proiettate su qualche schermo, ma è vero anche che i ragazzi hanno dentro di loro un serbatoio di immagini e anche un linguaggio legato proprio alle immagini in movimento, come campo e controcampo, primi piani, dettagli, loro sanno zoommare con l’immaginazione. E questo permette alla drammaturgia di una narrazione di usare tutti gli strumenti del cinema per raccontare una storia, perché i ragazzi saranno più capaci di creare un film con le loro immagini e questo quando succede li diverte molto e li coinvolge.

 Essendo un attore di grande esperienza, hai notato un cambiamento nel pubblico di oggi rispetto a quello di qualche anno fa?

 No non mi sembra che lo spettatore sia cambiato molto. Io credo che lo spettatore di teatro, ma anche di cinema, chieda sempre e ancora le stesse cose: vuole emozionarsi. Oggi rispetto a ieri sono cresciute le sue esperienze creative grazie ai media che ha incontrato, e che in qualche modo si sono sviluppati e sono cresciuti. Per esempio la nascita delle serie televisive aiuta molto la fruizione di un teatro di narrazione, perché abitua lo spettatore a delle tenute lunghe e a delle storie complesse. Lo aiuta a mantenere un rapporto lungo con i personaggi e a coinvolgersi nelle loro vicende. Certo il piacere provato dallo spettatore nel seguire una lunga storia lo rende più esigente rispetto alle emozioni e costringe di conseguenza i narratori ad essere ancora più forti e più incisivi sia nelle storie che raccontano che nel modo in cui le raccontano.

 Come nascono le storie che racconti, da cosa prendi ispirazione? C’è uno spettacolo o un episodio a cui sei particolarmente legato?

Risponderò a queste due domande insieme perché nel mio lavoro sono legate. Io prendo spunto e ispirazione per i miei spettacoli soprattutto dai libri. Qualche volta mi è successo che anche un articolo di giornale incidesse sul racconto, ma sono soprattutto i libri ad ispirarmi. Io leggo molto non solo libri per ragazzi, ma non leggo per trovare uno spettacolo, leggo per il piacere di leggere. Ma qualcosa dentro di me è sempre alla ricerca di un’emozione e quando la trovo in un libro so che quel libro potrebbe diventare un mio spettacolo. Naturalmente deve passare al vaglio del linguaggio narrativo teatrale, perché la scrittura e l’oralità sono parenti, ma non sono la stessa cosa, quindi bisogna vedere se è possibile trasformare quella storia scritta in una storia raccontata senza che si perda la forza emotiva che si è ricevuta dalla pagina scritta. Uno degli spettacoli che amo molto è “Giovanni Livigno. Ballata per piccione solista ispirata al più famoso parente Jonathan Livingstone”. Fui colpito dal libro di Bach quando ero molto giovane, quando la voglia di non essere conformato all’idea della vita che avevano i miei genitori era molto forte. La vicenda di quel gabbiano mi emozionò molto e pensai che un giorno avrei raccontato quella storia. E un giorno arrivò il momento di farlo. Lo capii mentre ero in tournée a Venezia facendo un personaggio in uno spettacolo che non mi piaceva e che correva il rischio di farmi perdere il grande entusiasmo che avevo nel fare teatro. Era la fine di novembre, a Venezia c’era una nebbiolina e la sera era già scesa, io ero triste e camminavo senza meta vicino ai canali scuri. A un tratto sentii nel canale accanto a me il tonfo di qualcosa che cadeva nell’acqua. Guardai meglio e vidi che si trattava di un piccione, probabilmente vecchio, che era caduto nell’acqua. Mi fermai e lo vidi mentre cercava di uscire dall’acqua e riprendere a volare. Ma più si agitava è più le piume si bagnavano e diventava sempre più pesante, non aveva una base solida per spiccare il volo e continuando ad agitarsi continuava a sprofondare. Sentii che dentro di me c’era qualcosa che somigliava molto a quel piccione. E pensai che dovevo fare al più presto qualcosa prima che la mia passione morisse come stava morendo quel povero animale. Sia la mia passione che quel piccione erano abituati a volare e io dovevo assolutamente tornare a volare. Da quel momento qualcosa si seminò dentro di me e finalmente qualche anno dopo nacque lo spettacolo. Non era la storia di un gabbiano bianco che vola alto, ma la storia di un piccione della periferia di una grande città come Milano dove io ero cresciuto. Lì dentro parlavo del mio sogno e della fatica per farlo volare. Ecco, così è nato uno spettacolo che amo molto e che faccio tutt’ora dal 1997.

Siamo contenti che Roberto abbia incontrato quel piccione in quella fredda Venezia, perché oggi moltissimi spettatori potranno ancora godere della sua magnifica Arte.

A cura di Francesca Fabbrini, Filodirame.