ENRICO BONAVERA, UNA VITA IN MASCHERA

ENRICO BONAVERA

È oggi l’Arlecchino ufficiale del Piccolo Teatro di Milano. Allievo “di bottega” di Ferruccio Soleri, con alle spalle una formazione nell’ambito del teatro di ricerca – ha collaborato con l’Odin Teatret di Eugenio Barba – svolge da ormai tre decenni la sua attività di attore di prosa e insegnante di teatro. Oltre al Piccolo Teatro di Milano – con cui è stato dal 1987 al 1990 e successivamente dal 2000 ad oggi interpretando i ruoli di Brighella ed Arlecchino nel “mitico” Arlecchino servitore di due padroni, e con il quale ha praticamente girato tutto il mondo.

Ha lavorato con Teatri Stabili, Compagnie private e Cooperative, tra cui il Teatro Stabile del Veneto, il Teatro di Genova, il Teatro Carcano di Milano, il Teatro della Tosse e il Teatro dell’Archivolto di Genova, il TAG Teatro di Venezia e La Piccionaia – I Carrara di Vicenza. Come attore di prosa, è stato diretto da Strehler, Lassalle, Scaparro, Sciaccaluga, Amelio, Battistoni, Soleri, Bosetti, Conte, Gallione, Crivelli, Kerbrat, Calder, Emiliani, Friedel, Hertnagl, Maifredi, Boso, Damasco, Zecca, Bongiovanni.

Come regista ha diretto allestimenti per La Piccionaia di Vicenza, lo Studium Actoris di Fredrikstad (No), il Tang Shu wing Theatre Studio (Hong Kong), il Teatro Excelsior di Bucarest.

Parallelamente svolge attività di onemanshow: dal 2000 presenta in tutta Italia e all’estero ‘I Segreti di Arlecchino’. una originale performance sui personaggi e le biografie degli attori della Commedia dell’Arte. Dal 2013 ha realizzato, in collaborazione con C. Zecca, L’Affaire Picpus da Il Naso di Gogol, rappresentato in Italia e in Brasile, ‘Osei Budei fradei’ e ‘Alichin di Malebolge’ in collaborazione con il Festival Ravenna/Dante 2021.

Come insegnante, collabora dal 1991 con la Scuola di Recitazione del Teatro di Genova; con Prima del Teatro – Scuola Europea di S. Miniato di Pisa; con i Corsi estivi del Centro maschere di Abano Terme, diretto da D. Sartori, con l’Accademia Internazionale di Commedia dell’Arte del Piccolo Teatro di Milano diretta da Ferruccio Soleri, con cui è stato a Mosca e a Shanghai

Dal 2004 è docente al DAMS di Imperia del corso di Drammaturgia dell’attore. Ha tenuto Corsi per il Teatro all’Avogaria di Venezia, per il Teatro Stabile del Veneto, per il Teatro Ateneo dell’Università La Sapienza di Roma, per l’ENSATT di Lione, per lo Studium Actoris di Fredrikstat (Norvegia), all’Università di Rio de Janeiro, al Centro Int. di Teatro di Figura “Odradek” in collaborazione con l’Università di Toulouse, l’ISTA diretta da Eugenio Barba, all’HKPA di Hong Kong, per il Grupo Moitarà di Rio e Janeiro, La Escola de Teatro di Sao Paulo in Brasile, l’Accademia Nazionale di Tirana, il Lyceum di Epidauro, il Teatro Excelsior di Bucarest.

Nel 1996 è stato premiato al Festival di Borgio Verezzi, come miglior attore non protagonista per la sua interpretazione di Arlecchino ne I due gemelli veneziani di Goldoni, regia di G. Emiliani. Nel 2007, al Festival “Mantova Capitale Europea dello spettacolo”, è stato insignito del prestigioso “Arlecchino d’oro”.

INTERVISTA

Caro Enrico grazie per aver accettato il mio invito. Vorrei cominciare subito chiedendoti come è avvenuto il tuo incontro con le maschere.

Nel 1975 alcuni miei compagni del mio ‘Collettivo teatrale Le Persone’ fecero un corso con Donato Sartori a Pontedera e tornarono con una maschera in cuoio di Brighella. Vidi poi l’esposizione delle loro maschere successivamente al festival del Teatro Popolare a Nancy, l’anno dopo.

Ma La prima idea di usare una maschera è stata dopo aver visto Torgheir Wethal, attore dell’ Odin Teatret, ne ‘Il Libro delle Danze’, nel 1976. Mi aveva molto impressionato il suo ‘nano’.

Cercai di rifare la stessa cosa in alcune ‘parate di strada’ con la mia Compagnia di allora.

Tuttavia non mi interessava poi molto il mondo della maschera e soprattutto della Commedia dell’Arte.

L’incontro che ha cambiato la mia vita è stato nel 1980, grazie ad un altro amico e collega – Mimmo Chianese – che mi propose di interpretare Arlecchino in uno spettacolo per le scuole.

In quell’occasione indossai per la prima volta la maschera di Arlecchino che Amleto Sartori, padre di Donato, aveva creato per Marcello Moretti ne ‘L’Amante militare’ di Goldoni, al Piccolo Teatro di Milano.

Fu un’esperienza molto forte che mi diede una specie di euforia e grande voglia di giocare.

 

Puoi raccontarci di un altro primo e grande incontro professionale, un incontro certamente importante per te, e cioè quello con il Maestro G. Strehler.

Devo l’incontro con Giorgio Strehler al mio Maestro ferruccio Soleri, che, dopo tre audizioni, mi fece scritturare dal Piccolo Teatro per l’allestimento di ‘Arlecchino servitore di due padroni’ Edizione dell’Addio.

Strehler voleva dare vita ad una nuova edizione, del tutto diversa dalle precedenti, togliendo ogni riferimento alla Commedia dell’Arte – pedana, siparietti dipinti – e coinvolgere il numero più alto possibile degli attori che quel testo avevano recitato negli anni.

Io entrai come Capocameriere della Locanda di Brighella, un ruolo piccolo ma con una scena di responsabilità – quella del ‘Pranzo’, massimo virtuosismo di Arlecchino – e un altro paio di scene.

Ebbi la fortuna che il grande regista decise di farmi recitare inventando un carattere di cameriere genovese, quindi ispirato ad un mondo che conoscevo bene.

Fu un lavoro di pochi giorni, ma per me illuminante: lui mi stimolava, io proponevo…alla fine non ricordo quello che inventai io o quello che inventò lui. Ebbi la sensazione di due ‘bambini adulti’ che giocavano insieme.

Non nascondo che quel Cameriere genovese ebbe un certo successo e in diverse occasioni applausi a scena aperta o in uscita…grazie a Lui.

La ‘cosa grande’ fu poter seguire tutte le sue prove, a cercare di “rubargli il segreto” della sua arte, misteriosa (come die Giulia Lazzarini). Strehler aveva nello stesso tempo il furore di un Beethoven e la grazie di un Mozart.

Abbiamo da poco salutato il carnevale, periodo dell’anno, nel quale ogni maschera diviene protagonista assoluta delle scena che rievoca un mondo ormai lontano. Ma è davvero così?

Il mondo delle maschere carnevalesche è davvero molto distante da noi.

Le maschere sono sempre state presenti nei rituali e nelle feste delle nostre montagne, sia Alpi che Appennini, a rappresentare l’Uomo Selvatico, demoni e creature legate alle stagioni dell’Anno, e quindi anche presenti nei carnevali.

Le maschere della Commedia sono entrate successivamente nei Carnevali, almeno fino ad una cinquantina di anni fa. Per poi restare nelle commedie, nel mondo dei burattini, o in qualche raro travestimento dei bambini.

Sì, è un mondo lontano ma che ha ancora una risonanza dell’inconscio popolare, nei modi di dire: non fare il Brighella – salti e scherzi come un Arlecchino – è un segreto di Pulcinella – paga Pantalone…

I bambini e gli adulti scelgono ormai altri tipi di travestimento.

Oltretutto le maschere rappresentano i vizi dell’umanità. I giovani di oggi preferiscono, se devono travestirsi o mascherarsi, identificarsi con “super eroi”.

La maschera, nelle sue molteplici declinazioni, può essere considerata come una “Figura”, e cioè artificio scenico ulteriore che consente al teatro di dialogare meglio con le nuove generazioni?

Se per ‘figura’ intendiamo burattini, marionette, pupi, ombre…no. La maschera non appartiene esattamente a quel mondo. Anche se – per una storia che si rifà al fenomeno del Theatre de la Foire parigino, nel ‘700 – molto spesso si sono trovati, maschere e figure, a collaborare in qualche spettacolo.

Il linguaggio è simile. La convenzione teatrale di ‘artificio che si trasforma in verità’ è infondo lo stesso. Le situazioni che si rifanno ad un teatro semplice ed immediato, e per questo ‘popolare’, sono spesso le stesse.

Ma la maschera è connessa con un corpo vivo, umano, reale.

La figura, infondo, è più ‘assoluta’, più sana. E’ più ‘rassicurante’ per un pubblico, soprattutto di bambini. Credo che il ‘Teatro di Figura’, nelle sue diverse declinazioni, per questo, non morirà mai.

Non posso dire lo stesso per il teatro di maschere e di maschere della Commedia dell’Arte, così legate ad un preciso periodo storico (dal ‘500 alla metà del’700) e a temi ripetitivi e ormai un po’ desueti – il conflitto tra vecchi e giovani, tra figli e genitori, tra servi e padroni.

Tuttavia il linguaggio delle maschere, quello che potremmo chiamare ‘realismo stilizzato’, è un linguaggio forte, di grande evidenza, capace – secondo me – in presenza di nuove storie e nuovi caratteri, di poter ancora essere utile all’arte del teatro e raggiungere e sorprendere anche le generazioni del mondo digitale, proprio perché così remoto rispetto alla loro esperienza.

Nei tuoi corsi teatrali, sulla commedia dell’arte, che svolgi in Italia e all’estero, affermi spesso che l’attore deve saper ascoltare la maschera e poi saperla assecondare. Ci puoi parlare meglio di questa strana alchimia?

Dopo molto lavoro tecnico, di definizione della battuta e del gesto, nonché del movimento, il mio Maestro Ferruccio Soleri mi disse: “Devi sempre ricordarti della maschera che hai sul volto, di ciò che esprime, di come lavora con la luce”.

In questo senso si parla di una specie di proiezione della propria immaginazione/memoria, simile a quella che usa un burattinaio, che non vede la propria marionetta o burattino, mentre la muove.

Oggi si parla di “neuroni specchio”: la capacità di reagire, ed avere impulsi concreti in relazione ad un interiore mondo virtuale e immaginario.

E’ ovviamente difficile da spiegare e ritengo che sia qualcosa, infondo, di molto personale.

La maschera è ‘testo’ e nel momento in cui la si percepisce e la si ricorda, è una fonte di informazioni che non passano esattamente per tutto il nostro cervello, quanto per l’emisfero destro, quello della creatività e dell’intuizione.

In ogni caso non è un rapporto facile da descrivere.

A Bali per esempio, l’attore indossa sempre maschere ‘benedette’, perché si ritiene che la maschera abbia al suo interno una ‘entità’ che vuole esistere tramite l’attore e che in qualche modo, se l’attore non è forte, difeso, lo possa possedere, ‘nutrirsi della sua anima’.

Nella nostra cultura non è la stessa cosa, ovviamente, ma la maschera porta sempre con sé un senso di mistero. Io dico sempre che bisogna ascoltare le maschere, e scoprire quelle che ti ‘bisbigliano’ e ti chiedono di vivere attraverso di te.

Tra tutte le maschere che hai avuto modo di far vivere o rivivere ce né una che più di altre a saputo parlarti meglio?

Ho sviluppato quella che potrei chiamare una ‘tecnica metamorfica’. Per questo mi avvicino un po’ a tutte. Ma non tutte le maschere ti chiamano.

Le maschere che ti parlano, di solito, sono state create da qualcuno che ha avuto una piccola visione e che quindi ha trasferito un po’ della sua anima nella sua creazione.

Per questo ci sono maschere formalmente bellissime ma che non hanno niente da dire, altre meno belle ma che ‘parlano’.

Le maschere della famiglia Sartori (Amleto, Donato e oggi Sarah) hanno questa forza e questo potere. Quindi, direi quasi secondo i giorni, mi stimolano e mi emozionano una o l’altra.

Dopo la maschera di Arlecchino, sento grande attrazione e divertimento nell’indossare le maschere di Pantalone e di Brighella.

La maschera di Brighella, tra l’altro, l’ho indossata per più di seicento repliche nel ‘Servitore di due Padroni’ quando ero il sostituto di Soleri (come Arlecchino, per ora, sono arrivato ‘solo’ a 290 repliche…)

Quanto è difficile per un attore rinunciare al proprio volto per dare vita ad un altro volto più arcaico? 

Non è difficile. E’ impegnativo. Sia per il lavoro metodico e artigianale che deve supportare il gioco d’attore. Direi costruire e trovare l’equilibrio sotto la follia (parafrasando Vasco Rossi).

Ma, una volta che la maschera ti ha ‘preso’ il problema è anche , semplicemente, sopravvivere.

L’arcaico centra solo come una quotidiana ontogenesi che ricorda la nostra filogenesi.

Ma questo appartiene ai filosofi e agli antropologi.

Caro Enrico, l’ultima domanda mi sembra d’obbligo. Che significato ha per te la parola UTOPIA?

Difficile risposta. Da un lato mi dà un senso di grande melanconia: qualcosa che non si potrà mai raggiungere, che non potrà mai esistere.

Non a caso è l’isola perfetta degli uomini che cercano di vivere in Armonia.

Dall’altro è anche il senso stesso della bellezza del viaggio dell’uomo, il sogno di raggiungere qualcosa al di là e al di sopra della mera realtà quotidiana.

Il pensiero pessimistico che vede dell’uomo tutti i suoi limiti, quei limiti che portano alla disarmonia e al conflitto tra le persone e le genti, non può fare a meno di confrontarsi con il suo contrario: quello spirito vitale e ottimistico che spinge l’essere umano a cercare di evolversi e di raggiungere la massima espressione delle sue potenzialità.

Grazie e a presto

intervista a cura di Zenone Benedetto – I Guardiani dell’Oca